Notiziario Eu-ISFE n.2/2025

7 febbraio 2025

Sono tanti e qualificati, per ultimo Draghi, ad aver capito che la Ue ha bisogno di una forza di difesa unica anche se integrata con la NATO. Occorre ripercorrere la storia di cosa è accaduto dopo il fallimento della CED (la Comunità Europea di Difesa).
Nel 1954 la Francia decise di non votare la CED per ragioni di calcolo politico che fece convergere gollisti e comunisti per il no. Da allora il problema è rimasto latente, anche se tutti gli Stati aderenti hanno goduto del vantaggio della copertura militare degli Stati Uniti nell’ambito della NATO.
Dopo la fine della Guerra fredda e la caduta del comunismo il mondo sembrava avviarsi dentro la strada della PAX americana e della integrazione dei mercati sospinta dal modello capitalistico occidentale fondato sulla crescita del benessere.
Con il Trattato di Maastricht del 1992, quando in Italia scoppiava Tangentopoli, l’Unione europea decise di darsi una politica estera comune. Nel 1997 con il Trattato di Amsterdam si decise di creare la figura dell’Alto rappresentante per una politica estera comune. Siccome nell’Unione si procede sempre lentamente, anche quando ormai era chiaro che i conflitti geopolitici non erano per nulla finiti e che la globalizzazione era piena di scontri e di insidie, nel 2009 con il Trattato di Lisbona si decise di rafforzare la figura dell’Alto rappresentante della politica estera dell’Unione.
Così l’Alto rappresentante divenne anche il Presidente del Consiglio dei ministri degli esteri di tutti gli Stati aderenti (CAE). Senza un assetto istituzionale di tipo federale o comunque senza un meccanismo di superamento della logica intergovernativa e del diritto di veto, non c’era politica estera della Ue così come non c’era un esercito comune della Ue.
La guerra in Ucraina ha reso evidenti le debolezze della Ue anche nell’intavolare trattative diplomatiche efficaci per la dissuasione ad usare la forza. Per questo ancora oggi l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza della Ue, Kaja Kallas, è un “profeta disarmato”. A molti piace così, ma la Danimarca, che non aveva mai partecipato alle riunioni della CAE (Consiglio dei ministri degli esteri dell’Unione), davanti alle minacce di Trump sulla Groenlandia, si è precipitata ad aderire al CAE.
In un mondo globalizzato ma conflittuale, entrano in gioco i pesi di potenza a livello mondiale. Senza difesa comune la Ue non può esercitare il suo ruolo. Magari a favore della composizione dei conflitti e di dissuasione dal ricorrere alla forza.

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Tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio, l’Unione europea non è riuscita a partecipare da protagonista né alla rivoluzione digitale né a quella dell’intelligenza artificiale. Oggi ci si rende conto del ritardo e del rischio di diventare dipendenti dai produttori di tecnologia nell’ambito dell’AI con la prospettiva di essere colonizzati da chi domina queste tecnologie. Da qui i tanti Piani europei per superare questi divari, ma anche per combattere il cambiamento climatico e sviluppare le politiche green. Troppe cose e poca attenzione al divario tecnologico sempre più grande rispetto a USA e Cina.
Da qui la proposta, per ora inascoltata, di un Centro europeo unico in grado di concentrare gli investimenti e coordinare la collaborazione fra università europee, startup, industrie e centri di ricerca. Così come fu fatto con il Cern di Ginevra.
Forse il fatto che il Presidente degli Stati Uniti si sia circondato dei leader delle Big tech e che i cinesi si siano dotati di Deepseek vuol dire qualcosa. Di molto più serio rispetto alle critiche di sufficienza che si sono levate contro le “sparate” di Trump da parte di alcuni politici europei e dei loro cortigiani.

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Alle sfide di Trump la Commissione europea, che ha competenza esclusiva nella politica commerciale, ha risposto con compostezza e pragmatismo. La Presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e il commissario al Commercio Maroš Šefčovič stanno lavorando ad una “agenda positiva” da proporre alla nuova amministrazione americana. Del resto è noto che le importazioni statunitensi di merci dall’Ue sono molto di più di quanto sia il valore dell’importazione di merci e servizi dagli Stati Uniti all’Unione europea. L’integrazione degli scambi fra Stati Uniti e Unione europea e l’egemonia del dollaro sugli scambi a livello mondiale suggeriscono di trovare intese. Se non altro per affrontare le sfide della Cina e delle economie emergenti, sia sul commercio mondiale, sia sul dollaro come moneta di scambio.
Per questo la guerra dei dazi non conviene a nessuno, né agli Stati Uniti, né all’Unione europea. Intanto la Presidente della Commissione ha detto che si può mettere sul tavolo l’aumento delle importazioni di Gnl dagli USA, che sono già oggi il secondo fornitore di gas della Ue, dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina.
«Nessuna economia del mondo – ha dichiarato a Davos – è integrata come le nostre […] Le aziende europee negli USA danno lavoro a 3,5 milioni di americani, e un altro milione di posti di lavoro americani dipende dal commercio con l’Europa […] L’Europa – ha aggiunto la Presidente della Commissione Ue – importa il doppio dei servizi digitali dagli USA rispetto all’intera Asia-Pacifico. Di tutti i beni americani all’estero, due terzi sono in Europa. E gli Stati Uniti forniscono oltre il 50% del nostro Gnl. Il volume degli scambi tra noi è di 1,5 trilioni di euro, il 30% del commercio globale». Il problema di fondo, come si può capire, resta nella convenienza reciproca. Per questo non ci sarà altra via che la trattativa.

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Non solo i Ventisette, ma anche il Regno Unito era presente a Bruxelles, più il Segretario generale della NATO Rutte. Si sono riuniti con Antonio Costa per discutere di difesa comune. Alla fine del “conclave”, però, non c’è stata la fumata giusta.
Il problema sono i soldi, ma anche la forza di volontà. Si aspetta il Libro Bianco, che la Presidente della Commissione e l’Alto rappresentante Kallas dovrebbero presentare entro la metà di marzo. Il problema è di come trovare le risorse per l’aumento della spesa militare e per decidere se investire tutto nell’industria europea oppure affidarsi, in parte, alle forniture americane. Il problema è sul tappeto, ma la strada è incerta.