Mauro Magatti su l’ “Avvenire” dell’ 11 settembre 2022 (Se nemmeno si dice pace) molto opportunamente ha richiamato la centralità della questione europea anche in relazione alle prospettive emerse dalla campagna elettorale italiana, di fronte al pericolo, sempre più evidente, del prolungamento indefinito e dell’ escalation del conflitto con le incognite e i rischi a ciò collegati:
“L’ Europa rischia di essere il vaso di coccio di una nuova guerra fredda globale [….]. La cronicizzazione del conflitto avrebbe effetti pesantissimi […]. È per fermare questa deriva che l’ Europa deve giocare con intelligenza la propria partita. Concretamente ciò significa due cose. La prima è rafforzare la capacità dell’ Unione di dare risposte unitarie alla crisi [….] comporre gli interessi divergenti nel quadro di una politica comune […..]per evitare che l’inverno ci travolga[...]. La seconda cosa è non dimenticarsi nemmeno per un momento che [….] è necessario alimentare con costanza e determinazione la ricerca di una pur difficilissima via di pace [….]. L’ Europa non deve demordere da quella vocazione di pace che l’ha caratterizzata dopo la fine della seconda guerra mondiale. Se smarrisse questa vocazione sarebbe la stessa Europa a non esistere più”.
Magatti ci dice in sostanza che noi siamo di fronte a problemi epocali, eccezionali, che mettono a rischio la stessa esistenza dell’ Europa, non ad una delle tante crisi o emergenze internazionali attraverso cui siamo già passati. Il che ha reso ancor più surreale la campagna elettorale italiana in cui i partiti sono parsi inseguire soltanto gli obiettivi-bandierina con cui ognuno mira solo a massimizzare il consenso immediato. Sta forse terminando una prima fase della globalizzazione, evidentemente una globalizzazione priva di regole e di controlli della screditata “politica”, una fase affidata unicamente a tecnologia ed economia, che non hanno saputo fermare né crisi finanziaria, né pandemia, né ritorno della guerra convenzionale in Europa.
Sembra oggi molto lontana nel tempo anche la Conferenza sul futuro dell’ Europa solennemente conclusasi nel maggio 2022. Dove sono oggi le proposte avanzate dai cittadini? La guerra in corso ha forse tolto loro attualità? Quale è infine il profilo che assumerà l’ Europa del futuro: quella di una “società della cura” , una società attrattiva che si prende cura dei deboli, come affermava nel maggio 2021 la Von der Leyen, addirittura riproponendo il motto di Don Lorenzo Milani I CARE/WE CARE ? O sarà invece quello di una comunità che si afferma attraverso un potere di deterrenza fondato su una forza che si difende coi fili spinati alle frontiere ?
È chiaro che il 25 settembre non si è trattato di votare per l’ Europarlamento, ma per il Parlamento italiano. Ma è noto anche che il nuovo Parlamento dovrà dare la fiducia e proporre indicazioni ad un presidente del Consiglio che dovrà decidere su punti essenziali all’interno dei Consigli dell’ Unione, dove si prenderanno decisioni di rilievo assoluto per il futuro anche dell’ Italia. È troppo sperare che qualche leader si risolva ad affrontare i temi del futuro dell’ Europa che è poi anche quello dell’ Italia ? Evitando magari gli slogan e le frasi di maniera?
La guerra di Ucraina ha evidenziato aspetti essenziali da tenere presenti per completare la costruzione europea. Ha messo in luce la profonda interconnessione tra i problemi dell’energia, delle materie prime, della pace e della guerra. Interconnessione forse ancora più profonda oggi che nel 1914, nel 1923 o nel 1950, quando dalla intuizione di Schuman e di Monnet nacque l’idea della CECA e si pose mano alla costruzione europea, mettendo in comune, a parità di condizioni, carbone e acciaio tra Francia Germania Italia e Benelux.
Oggi ci siamo abituati a contrapporre politica (lenta e inefficiente) ed economia ( veloce ed efficace). Ma la costruzione europea cominciò proprio mettendo insieme politica ed economia. Si cominciò dall’economia non perché si trattasse di un progetto capitalistico-finanziario con finalità puramente economiche, ma perché si comprese che l’economia non può essere abbandonata a se stessa se si vuol salvaguardare il bene primario della pace e dello sviluppo. L’economia non può guidarsi da sola. Era evidentemente chiaro a Schuman che non c’è nessuna “mano invisibile” del mercato che ci salvi e ci trattenga sull’orlo del baratro, quando lo scambio commerciale alla base dell’economia diventa competizione assoluta per il possesso delle risorse energetiche e delle materie prime. Il “dolce commercio” cede allora il posto ad uno scambio di beni dove i rapporti di forza decidono tutto ed un mercante di pesce o di sete preziose è sullo stesso piano di un mercante di schiavi o di un Sir Francis Drake che conduce legittimamente e legalmente una guerra di corsa assaltando galeoni spagnoli per conto della Corona inglese. Il mercantilismo del XVIII e XVII secolo mixava del resto tranquillamente guerra, violenza, commercio e ricchezza, come poi fece l’imperialismo ottocentesco. Dovrebbe essere perciò una ovvietà il fatto che l’economia non può normarsi da sola, ha sempre bisogno di essere organizzata sulla base di principi esterni, dettati da altre sfere del pensiero umano. Ed è chiaro anche che da una saggia organizzazione dell’economia è derivata la pace che così a lungo ha distinto la vicenda europea. Se rileggiamo con attenzione la Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 non possiamo aver dubbi in proposito.
Ebbene l’ Europa del futuro, ma anche l’Europa di oggi, ha bisogno di riprendere la saggezza di Schuman e Monnet. Le questioni dell’energia che oggi sono divenute un’arma micidiale nella guerra ibrida scatenata da Putin, entro una prospettiva diversa e “razionale”, potrebbero divenire un elemento di cooperazione o di collegamento tra i popoli diversi. Le spade potrebbero trasformarsi in vomeri. Raramente, ma talvolta questo è successo. È successo ad esempio tra Francia e Germania, dopo il sangue di tante successive “inutili stragi”, sicuramente molto più terribili di quelle che oggi devastano l’ Ucraina. L’ Europa ha un passato pieno di disastrosi smarrimenti e di tragedie collettive, che però essa è riuscita sempre a superare senza perdere la speranza alimentata da quella saggezza.
Non ci si era affidati – nel caso della CECA – alla casualità della mano invisibile del mercato, ma alla mano ben visibile di un’Alta Autorità che garantisse l’accesso all’energia/materia prima di tutti gli Stati su un piano di assoluta parità. Oggi, in mancanza di una simile autorità istituzionale la organizzazione economica è affidata ai puri rapporti di forza, che, nel caso della guerra all’ Ucraina, si sono convertiti in pura violenza. La violenza è il surrogato naturale dell’autorità che non c’è.
Le fonti energetiche (metano e petrolio) sono divenute così un‘ arma di ricatto straordinariamente efficace, che può rendere possibile addirittura la distruzione di intere economie nazionali. La guerra di invasione russa in Ucraina ha reso possibile una guerra ibrida, di attacco militare e di logoramento economico e sociale, in cui alle modalità militari della guerra si affiancano altre modalità. Una guerra che si cronicizzasse, anche rimanendo soltanto una “guerra economica” per buona parte d’ Europa, come si teme purtroppo succeda, potrebbe essere una guerra non solo di incalcolabili costi umani per coloro che “resistono”, ma anche di effetti difficilmente prevedibili, ma sicuramente devastanti materialmente e socialmente, oltre che psicologicamente per coloro che sostengono i resistenti ed anche per l’aggressore. Ed in effetti di questo tipo è stata anche la situazione che si determinò nella guerra 1914- 18 quando lo stallo assolutamente imprevisto delle armate che si erano affrontate baldanzose, in vista ciascuna della imminente vittoria militare, trasformò la guerra non solo in una “inutile strage” ma in un logoramento totale delle strutture sociali e degli Stati, facendo crollare nell’abisso di una rivoluzione di portata inaudita l’impero zarista e poi anche le democrazie liberali degli Imperi centrali, nonché quella italiana. Senza quella guerra di logoramento – è evidente – mai avremmo avuto al potere di uno Stato né comunismo né fascismo, cioè non avremmo avuto i totalitarismi del XX secolo. Dovremmo tenere questo molto bene fisso in mente. Anche perché non possiamo prevedere quale nuovo mostro potrebbe essere portato ad esistenza da una imprevista guerra di logoramento in Europa.
Tornare ad organizzare l’economia per la pace oggi appare perciò un pio desiderio o un’utopia, che rischia di distrarci dall’obiettivo ritenuto più “realistico” della vittoria sul campo, che potrebbe anche delinearsi in seguito ad una imprevista avanzata delle truppe ucraine ed a difficoltà interne del governo russo. Infatti ci si limita per ora a provvedimenti che servono soltanto a mitigare i costi dei rincari per famiglie e imprese, una via di uscita che mira a temperare gli effetti, ma non ad incidere sulle cause. Non incidono sulle cause strutturali neppure gli interventi annunciati dalla Commissaria Von der Leyen il 14 settembre, che si tratti delle misure di razionamento obbligatorio dei consumi elettrici, del tetto alla remunerazione delle tecnologie inframarginali nella produzione di elettricità o del contributo temporaneo di solidarietà chiesto alle società “oil & gas”. Nessun intervento è peraltro previsto col bilancio o coi fondi dell’Unione.
E tutto questo, qualsiasi siano gli esiti dei combattimenti sul campo, è terribilmente inadeguato alle necessità effettive ed alla tutela dei cittadini europei soprattutto negli Stati – come l’ Italia – che hanno maggiori difficoltà a lavorare su scostamenti di bilancio, anche se molto ridotti rispetto a quanto proposto ad esempio dal governo del Regno Unito. Stati che rischiano di avere il crollo di interi settori produttivi. La coesione dell’ UE sarebbe oggettivamente a rischio e non è da escludere che la rottura di questa coesione sia uno degli obiettivi di Putin.
Perché allora non riusciamo ad arrivare al cuore della questione? Cosa ce lo impedisce? Perché la pace costruita da Schuman nel 1950 dev’esser considerata un’utopia nell’ Europa del 2022?
La risposta credo sia semplice, almeno a dirsi. Perché ci manca da un lato il concreto riferimento al fondamento su cui si è costruita nel tempo l’idea di Europa, l’idea umanistica del vivere insieme tra diversi, l’idea di una convivenza umana organizzata nell’interesse delle persone concretamente esistenti, l’idea di una convivenza in cui lo scambio può essere reciprocamente vantaggioso, l’idea che sia possibile costruire un bene comune senza sottrarre niente agli altri o senza imporre alcunché.
Abbiamo distrutto le basi umanistiche della convivenza umana così come essa è stata concepita e realizzata in Europa, in nome di un “mercatismo” liberista e di concezioni liberistiche che ci hanno abituato ad una “società del rischio” in cui il progresso perdeva sempre più connotazioni umane . Abbiamo vissuto entro un riduzionismo economicistico, astratto e post-umano anche se apparentemente e tragicamente rassicurante ( “la moneta unica sarà la pietra su cui costruiremo l’ Europa”, come si è detto in relazione all’euro ). Abbiamo creduto ciecamente alla capacità ordinatrice e provvidenziale del mercato finanziario, dimenticando che il mercato che funziona è quello che si fonda su una fides, su un affidamento reciproco, che il mercato non può da solo generare, ma che deve sempre provenire dall’esterno. Senza di essa la logica di mercato tende a far prevalere la competizione assoluta , la diffidenza o la paura reciproca, in altri termini una delle condizioni classiche dello stato di guerra, anche laddove sia assente il ricorso alle armi. Forse questo riduzionismo ha persino stimolato la nascita nell’ est europeo delle democrazie illiberali e nazionaliste che privilegiano le concrete e tangibili identità nazionali fino a cercare omogeneità confinanti col razzismo. Identità senza relazione, come è naturale per chi pensa la società come insieme di individui e non di persone. Cosa annunciavano se non questo i fili spinati ai confini di Stato, reintrodotti come nuova “cortina di ferro”?
Ma oltre a questa difficoltà culturale vi è un’altra difficoltà, di tipo giuridico, che ci impedisce di riorganizzare l’economia in vista della pace. È una questione legata ai trattati vigenti, che anche la Von der Leyen propone di rivedere.
C’è qualcosa che rende la costruzione europea qualcosa di lontano dalle persone, qualcosa di astratto. È il problema del rapporto tra politiche monetarie (quelle volte a tutelare il valore del denaro) e politiche fiscali (quelle volte a intervenire nell’economia con risorse pubbliche).
Si tratta di una questione che ha a che fare col funzionamento della Banca centrale europea. La BCE ha oggi, ai sensi dell’art. 127 TFUE, una forte indipendenza dai poteri politici dei singoli Stati, oltre che da quello dell’Unione Europea. Una indipendenza dagli esperti ritenuta unica ed eccezionale, anche rispetto alle banche centrali classiche, come quella americana, quella neozelandese, quella di Inghilterra e quella tedesca. Questa indipendenza è stata sino a poco fa controbilanciata dalla limitatezza del compito stabilito, il mantenimento della stabilità dei prezzi, e quindi dall’obbligo di permanere nel perimetro della politica monetaria. Ma col tempo le cose sono cambiate. Una sentenza della Corte di Giustizia Europea, la sentenza del 16 giugno 2015, sulla causa Gauweiler, ha infatti stabilito (in risposta aduna questione posta dalla Corte Costituzionale tedesca, in merito alla politica monetaria delle OMT) che fissare i limiti entro i quali l’azione della BCE possa qualificarsi come monetaria e non economica – e quindi legittima secondo i trattati – spetta alla BCE soltanto, che dispone quindi di propri poteri discrezionali in materia. Una istituzione ed, al tempo stesso, una parte in causa legittimata dunque a giudicare se stessa. Col rischio, quindi, di una sorta di neo-assolutismo istituzionale. L’indipendenza della banca infatti “non appare più come mera indipendenza dal potere politico, ma tende configurarsi come una vera e propria indipendenza sul piano giuridico, sia per quanto concerne i presupposti dell’azione, sia per quanto riguarda la dimensione della stessa. Il risultato pratico è che la BCE può, individuando uno scopo che abbia latamente a che fare con il principio della parità dei prezzi, compiere qualunque operazione finanziaria, anche di pura natura speculativa, rimanendo di fatto legibus soluta” (G. Contaldi, Il nuovo ruolo della BCE nel funzionamento dell’ UEM dopo la decisione sul caso Gauweiler, in Rivista AIC Fasc, 1/2017, 1 febbraio 2017, p.9 ).
Tanto più rilevante questo potere in un momento in cui la gestione della moneta potrebbe interagire coi problemi della pace e della guerra, con la vita delle persone. Le guerre sono sempre state finanziate con debito pubblico. Lo stesso potrebbe avvenire per il finanziamento dei costi legati alla guerra in Ucraina, specie se essi dovessero crescere ancora.
Può però un potere guidato dalle competenze tecniche prendere decisioni (in termini di emissioni valutarie) che riguardano la pace e la guerra, nel nostro caso i costi diretti (le armi inviate all’ Ucraina) e i costi indiretti della guerra (i costi delle contro sanzioni o ritorsioni di Putin) che gravano senza limitazioni e senza protezioni sui singoli cittadini, in alcuni Stati magari più che in altri? Non dovrebbe qui valere la stessa logica solidaristica del Recovery Fund dopo la pandemia? E potrebbero le decisioni in merito essere assunte da un organo non politico?
Non si tratta qui di intervenire nel complesso rapporto tra la politica fiscale e quella monetaria, operando con le dovute modalità anche sui trattati per rendere permanenti e non eccezionali questi interventi?
Per riprendere alcuni suggerimenti contenuti nella recentissima pubblicazione dell’ ISFE (Istituzione di Studi Firenze per l’ Europa) dal titolo Pensare l’ Europa- Riflessioni e proposte, oggi in Europa ciò che si sta delineando potrebbe essere l’esigenza d’introdurre “una politica monetaria dalle frontiere allargate, con la BCE aperta a obiettivi strategici plurimi”, un mutamento radicale “che richiederebbe una nuova concezione dell’indipendenza della banca centrale e della sua responsabilità (“accountability”), un vero ripensamento teorico di “political economy” (Alessandro Petretto, Verso una nuova governance economica nell’ Unione Europea, p. 41, in: Zeffiro Ciuffoletti, Pensare l’ Europa- Riflessioni e proposte, Effigi, Arcidosso, 2022). “ Sarebbe pertanto indispensabile […] coordinare politica monetaria e fiscale, mediando tra le due dominanze” ( Ivi, p. 47). In altri termini le banche centrali e quindi la BCE per contrastare le crisi sistemiche sempre più ricorrenti saranno “sempre più chiamate a riconsiderare le loro funzioni per perseguire, più o meno esplicitamente, obiettivi più ampi ed estesi che unifichino il controllo monetario, la riduzione delle oscillazioni del prodotto nazionale, la tenuta della stabilità finanziaria e le transizioni digitale e ambientale” (Ibidem). Non potrebbe più aversi una politica fiscale subordinata alla politica monetaria. Si tratterebbe di costruire un bilanciamento secondo linee attualmente non previste dai trattati, ma in linea di continuità con quanto iniziato già col Recovery Plan post pandemico.
Forse da interventi del genere bisognerebbe ripartire se vogliamo una Europa sociale e se vogliamo nel medio periodo iniziare a costruire davvero la pace. Ed anche se vogliamo tutelare da nuovi pericoli il funzionamento di un principio cardine come quello dello Stato di diritto anche nell’ Europa delle democrazie liberali. Se noi infatti riconosciamo all’ Istituto di emissione di Francoforte l’assoluta discrezionalità di qualificare come monetario o economico – e quindi compatibile o incompatibile con la sua mission – lo strumento finanziario che ogni volta mette in azione, si potrebbe creare una situazione “poco conforme al rispetto dei principi che governa nolo Stato di diritto: non è infatti concepibile che un organo privo di legittimazione democratica, come la BCE, goda di una discrezionalità illimitata restando, nel contempo, esente da un controllo giudiziario effettivo” (G. Contaldi, op. cit., p.9). Sarebbe anche un modo per evitare che la BCE continui ad essere un caso di anomalia mondiale, avvicinandosi al modello delle classiche banche centrali, che, se pure costruite con solide garanzie di indipendenza, sono tuttavia soggette – vedi la Fed americana – a forme di responsabilità e di controllo da parte degli organi legislativi supremi. Sicuramente l’ UE ne guadagnerebbe in solidarietà politica ed in coesione interna. Oltre che nella sua capacità leadership politica non certo mondiale, ma almeno regionale e quindi nel tornare ad essere un costruttore di pace e di sviluppo.
Testo pubblicato originariamente su politicainsieme.com