La guerra in Ucraina per finire deve cessare con accordi di pace riconosciuti, altrimenti sarà solo un intervallo di non belligeranza in attesa del prossimo conflitto
La nuova misura sanzionatoria dell’Unione Europea e del G7, il price cap, mette in luce ancora una volta una caratteristica dell’attuale guerra in Ucraina, quella appunto di essere non solo un conflitto armato combattuto sul campo, ma di articolarsi in dimensioni non facilmente riassumibili in una logica binaria, quella per intenderci di amico-nemico. O meglio che questa contrapposizione fondamentale su di un livello non si riproduce più sic et simpliciter su altri piani, livelli e dimensioni.
Già sul piano militare vi sono per lo meno quattro guerre. Vi è lo scontro sul terreno tra forze ucraine e forze russe; vi è la proxy war, la guerra per procura, combattuta dalla Nato contro la Russia tramite l’Ucraina a cui l’Alleanza fornisce armi, munizioni, consiglieri, intelligence; vi è la guerra della Russia contro le infrastrutture civili – centrali elettriche e idriche in primo luogo – ucraine bombardate senza sosta da questa estate; vi è la guerra dei gruppi privati, mercenari, milizie, combattenti internazionali, eserciti di autodifesa nazionali vari. Ecco allora comparire compagnie Wagner, battaglioni Azov, volontari internazionalisti – polacchi, ceceni, turchi, siriani, libici, anglosassoni e perfino italiani – dell’una o altra parte, mercenari – con propri comandi, ideologie e interessi non coincidenti al cento per cento con quelli dei comandi nazionali centrali, russi o ucraini che siano.
Anche le dinamiche geopolitiche sono diverse e non sempre chiare. Intorno alla Crimea e al Donbass si gioca la partita non solo tra Russia e Nato, tra Russia e Stati Uniti, tra Mosca ed Europa, ma a macchia d’olio, lo scontro regionale per il Caucaso, l’Asia Centrale, il Mediterraneo. E infine la partita delle partite, quella tra Cina e Stati Uniti.
Ecco che allora la guerra economica su materie prime, prezzi, volumi di produzione, controllo dei prezzi, dei flussi e dell’approvvigionamento non può essere letta in una chiave locale o al massimo regionale.
Non ci si stancherà mai di ripetere l’insegnamento erede della grande tradizione realista: un ordine mondiale per funzionare ha bisogno di un accordo tra le parti sui princìpi di legittimazione in grado di produrre regole valide ed efficaci del gioco. E questo oggi manca completamente: a partire dall’occasione persa dalla fine della Guerra fredda, che non terminò con alcuna conferenza di pace, e nemmeno le potenze revisioniste come la Russia stanno producendo princìpi sostitutivi su cui si dovrebbe reggere la futura convivenza internazionale.
In apparenza potrebbe sembrare che Mosca stia affermando – contro l’ordine unipolare di Washington, sostenuto dai princìpi liberali – un nuovo multipolarismo, a sua volta basato sul principio di autodeterminazione dei popoli e delle nazioni. Peccato, però, che questo principio sia assolutamente rigettato dalla Cina, che si sente minacciata nella sua integrità territoriale, e da tutti i Paesi limitrofi della Russia, una volta facenti parte dell’Unione Sovietica o del Patto di Varsavia. Principio contestato non solo da Paesi baltici e Polonia, ma anche da tutti gli -stan dell’Asia Centrale, nonché dalla Georgia e perfino dall’alleata Armenia. Perché alle loro orecchie l’autodeterminazione dei popoli richiama alla mente il detonatore che minaccia la loro integrità territoriale e ricorda il passato neo-coloniale di Mosca mai sopito. Autodeterminazione dei popoli e delle minoranze come copertura della logica imperiale della sfera di influenza, logica per altro rimproverata dalla Russia alla Nato.
Se liberismo, globalizzazione, libertà di mercato spesso sono parole d’ordine che nascondono realtà di dominio imperiale, i meccanismi che regolano la vita della società internazionale sono complessi, non leggibili attraverso una logica manichea.
Un nuovo ordine internazionale che prenda il posto di quello attuale si costruisce solo su princìpi condivisi: questa è la lezione storica della grande tradizione europea, a partire dalla pace di Vestfalia. Le guerre per finire devono cessare con accordi di pace riconosciuti, altrimenti sono solo tregue. È quello che è successo dopo la fine della Guerra fredda, a cui fecero seguito le guerre nella ex Jugoslavia. In seguito avvenne il disfacimento del Medio Oriente, terra di confine e di incontro dell’equilibrio tra Est e Ovest, tra Stati Uniti, Europa e Unione Sovietica.
E adesso la guerra in Ucraina. Dopo la caduta del Muro, non un nuovo ordine mondiale unipolare, ma intervalli di pace in attesa della prossima guerra. Ogni volta più vicina a noi e sempre più disastrosa.
Pubblicato originariamente su IlSussidario.net