Firenze

Alla ricerca di una Firenze che era grande di Franco Camarlinghi

Nella mia città in via Tornabuoni si confrontavano le menti migliori dell’Università e in San Pierino un trippaio poteva diventare allievo del maestro Annigoni. E oggi?

Giovanni mi accompagna alla fermata dell’autobus in Largo Alinari, dopo che abbiamo camminato per un po’ di tempo in una parte del centro, parlando della nostra città, di una Firenze in cui riusciamo a fatica a riconoscerci. La fermata Stazione Nazionale è un luogo assai movimentato, come è noto alle cronache, da tensioni, diciamo multietniche, che non di rado sfociano in violenza. Un bel giovanotto nero discute animatamente con un giovane bianco che parla con un tono slavo e impugna una bicicletta. Non capiamo che cosa dicono, ma di certo l’oggetto del contendere è la bicicletta: vicino ai due litiganti altri connazionali aspettano solo l’inizio della rissa, non si sa mai se per fermarla o parteciparvi. Conviene allontanarsi: infatti, dopo dieci secondi, comincia la rissa. In definitiva è tutto come sempre, se leggiamo quello che succede nei dintorni della Stazione. Fra poco, forse, arriverà una macchina della polizia e quelli che aspettano il bus saranno felici di salirci e di levarsi di torno. Siamo andati a spasso per un centro che è tale solo perché contiene una storia artistica e culturale che nessuna invasione di tavolini e aggeggi simili può annullare. Ma non è per parlare del degrado fisico della Firenze all’interno delle mura che ho chiesto a Giovanni di vederci. Devo tornare un giorno indietro per far capire di cosa voglio parlare.

Quando il giornale mi ha chiesto di fare un mio viaggio attraverso la Firenze di oggi, nella memoria di quella che è stata la mia città di un tempo passato, non ho pensato a tutte le parole che sono state spese sul Rinascimento o meno, sul degrado o meno. I protagonisti del Rinascimento o dell’Autunno del medioevo non sarebbero stati definiti tali se non molto più tardi e non erano solo pittori, o scultori, o architetti; erano a Firenze e altrove i componenti di una società che produceva conoscenza in tutti i sensi e che dava a tutto ciò risalto sociale e civile. Ho pensato a questo e sono andato a cercare i luoghi dove in un passato lontano per me, ma non per la storia, si avvertiva che c’era una città che cercava e riusciva a produrre conoscenza, oppure stile di vita, comunque identità urbana. Ho cominciato da quella piazza di cui ho parlato prima per il clima di disordine e spesso di violenza che vi si respira e sono andato alla ricerca di qualcosa che non c’è più. Le librerie, già quei luoghi che non erano solo spazi di vendita, ma invero di incontro e di scambio. Mi avvio per via del Trebbio e arrivo all’incrocio fra via del Moro e via delle Belle Donne: Franco Maria Ricci aveva aperto proprio sull’angolo una piccola, elegante libreria: ora c’è l’insegna di una gelateria.

Pazienza, passo sotto la lapide che ricorda il soggiorno di Ingres a Firenze, infilo il vicolo che porta a via Tornabuoni e mi fermo a distanza di quella che una volta era la Seeber. La Seeber era uno dei luoghi dove si rivelava l’altezza del livello degli studi di una città, con i suoi scaffali sempre aggiornati e i tavoli d’ingresso con le novità nazionali e internazionali e dove a una certa ora del pomeriggio potevi incontrare le personalità più importanti dell’Ateneo fiorentino. Ora ci vendono dei bei vestiti. Cose viste e riviste, si dirà, ma faccio due passi e mi viene in mente un altro fantasma del passato: la Libreria Caldini, preziosa per i libri d’arte e di antiquariato e per i testi internazionali. Il proprietario si batté contro l’aumento dell’affitto che lo avrebbe portato alla chiusura, ma non ci fu niente da fare: era il 1987 e gli amministratori dell’epoca non ci poterono fare niente, anche perché erano convinti che la vocazione di via Tornabuoni fosse tutta e solo la moda. Non era così fino a un certo tempo fa, ve lo posso assicurare, ma ora è vero e la via non è più una via, ma una gigantesca vetrina.

Lasciamo stare e andiamo verso le Logge del Porcellino. Un’altra apparizione di pura fantasia: la Libreria del Porcellino, una delle ultime di una storia culturale e urbana rasa al suolo per far posto ad altro commercio. Mi risveglio subito e attraverso piazza della Signoria, dove spunta l’albero di Penone. Mi sono sempre domandato perché opere come quella le mettano in luoghi a cui aggiungere qualcosa non serve a niente, mentre potrebbero abbellire le periferie, dove per altro vivono i fiorentini che, come si sa, in pochi ormai riescono ad abitare ancora dentro le mura. Ma lasciamo stare: voglio arrivare ad un altro di quegli spazi che erano un patrimonio indiscusso di Firenze: la libreria Marzocco. Tutti i grandi editori e anche quelli piccoli non mancavano di visitarla periodicamente per sentire il polso del mercato librario e studiosi di rango, giovani studenti e lettori appassionati vi trovavano straordinari librai. Ora c’è la gastronomia democratica e di qualità: niente di male, ovviamente, ma non è la stessa città, come non lo è se poco più avanti, in via Cavour, si va a prendere un gelato in quella che fu la prima libreria Feltrinelli e che per tutti, giovani e vecchi, rappresentò una grande apertura sul mondo contemporaneo. Se uno vuole il giro delle librerie che non ci sono più lo può finire in via San Gallo dove la Le Monnier era un altro baluardo di diffusione e di formazione culturale.

L’ho fatta lunga sulle librerie perché attraverso quella storia si definisce un mondo intellettuale che era parte indispensabile della classe dirigente fiorentina. Un mondo intellettuale che era evidente anche per chi non ne poteva essere direttamente partecipe. Infatti, la Firenze degli studi e della ricerca che si incontrava nelle librerie che sono andato a vedere con gli occhi della fantasia, non avrebbe avuto quel ruolo civile importante che invece ebbe per molto tempo, se non ci fosse stata una struttura di mediazione con i cittadini.

La prima rete di passaggio fra la produzione di sapere e la città era naturalmente fatta dai giovani, dagli studenti che vivevano intensamente il centro di Firenze, allontanandosene quel tanto che era necessario per arrivare ad Arcetri o a Careggi. La città per storia vocata agli studi e, quindi, alla creazione di valori morali e politici, aveva poi un sistema di mediazione fra le diverse classi sociali e gli stessi diversi sistemi di pensiero che erano i partiti e i sindacati. Mentre mi allontano da quella che una volta era la Marzocco, penso a quello che ho detto prima: mi viene da sorridere perché ora come ora non saprei più nemmeno dove andare a cercare le sedi dei partiti.

Una volta era diverso e in un quarto d’ora posso arrivare a quella che era una delle dimostrazioni fisiche di quello che ho detto. Passo di fronte a Santa Maria Nuova, lascio un saluto a via della Pergola e dopo poco sono in piazza dei Ciompi di fronte a quello che un tempo era l’ingresso della Casa del popolo Buonarroti. La Buonarroti, come altre istituzioni popolari, era un vero centro di formazione politica non locale, oltreché di svago e di consolazione per la gente del quartiere. Era la Casa del popolo più importante del centro e non aveva più niente a che fare con Beppone e la Parrocchia avversaria di Don Camillo: no, era una vera e propria istituzione in cui avveniva l’incontro fra intellettuali, politici, sindacalisti, militanti dei partiti della sinistra, confronti costanti anche con gli avversari. Era così che uno che faceva l’artigiano, il tipografo o l’operaio poteva tirare tardi la notte a discutere con Cesare Luporini, Ernesto Ragionieri, Giorgio Mori o andare a sentire, al Madonnone, le lezioni su Gramsci di Eugenio Garin. Nello stesso salone dove talora si ballava o si giocava a tombola, non ci si poteva stupire solo per la presenza di quella che allora si chiamava l’Alta Cultura nazionale, ma ricordarsi anche che, per la prima o la seconda volta in Italia, c’era stato il Living di Julian Beck.

Lascio piazza dei Ciompi e la Loggia del Pesce e fra un tavolino e l’altro arriverò a quello che noi ragazzi degli anni Sessanta chiamavamo l’onfalo, cioè il mitico Arco di San Piero. Per dire cosa fu San Pierino per un lungo periodo del dopoguerra, fino all’inizio degli anni Ottanta, occorrerebbe uno spazio che qui non è possibile nemmeno supporre: basti dire che, soprattutto prima e dopo l’alluvione era uno dei luoghi di Firenze (non il solo) in cui si incontravano generazioni diverse, studenti e studiosi, giovani in cerca di esperienze culturali. C’era qualcosa, lì come altrove, che oggi non è nemmeno più lontanamente immaginabile: il mondo variegato che dava colore a quella piazza la sceglieva per incontrarsi con la gente che da sempre viveva quelle strade, dai ricchi dei Borgo degli Albizi al «popolo» di San Simone, di via della Burella e dintorni.

Si avvertiva una commistione di cultura e di esperienze: una Firenze illustre quanto si vuole, ma senza le dimensioni delle capitali europee, dava comunque, in certe sue parti, la sensazione di vivere in una grande città. Forse era un’illusione della mia generazione, ma ora mi guardo intorno, ricordo tante cose del passato. Annigoni che aveva lo studio a due passi e lasciava dei quadri dalla Daria (mitico bar che non chiudeva mai e ci faceva credere di essere a Parigi o a Londra); il mitico trippaio di piazza che diventava allievo del maestro e con grande rammarico del popolo di San Piero lasciava il suo banco per diventare pittore professionista. Le furibonde discussioni politiche notturne fra vecchi e giovani intellettuali e artigiani o operai che imparavano volentieri, ma nello stesso tempo non cedevano di un millimetro sulle loro personali convinzioni. Se smetto di ricordare non vedo più niente di simile, neanche riesco a immaginarlo: forse è giusto così, penso, tanto per non sentirmi un passatista.

Sono di nuovo con Giovanni, gli racconto le fantasie del mio giorno precedente e gli domando dove era, fisicamente, la città per un giovane cattolico che negli anni Sessanta e Settanta fosse alla ricerca della propria formazione culturale e politica. Dopo un’occhiata a un incredibile bailamme di piazza della Repubblica che tutti si industriano a imbruttire, per quanto brutta lo sia già di suo, cerchiamo un tavolino per prendere un caffè e parlare. Detto tutto il male dei tavolini post pandemia, alla fine uno bisogna pur trovarlo. Il suo viaggio è diverso dal mio e da quello di tanti altri che sono passati attraverso culture diverse, da sinistra a destra e che tutte definivano lo spazio mentale e anche fisico della città. Mentre parliamo è come se camminassimo per le piazze e le strade di Firenze ed è come se vedessimo una città che c’era e che non era meno contemporanea di quella di oggi.

È un viaggio che comincia da piazza Indipendenza dove, dal lato opposto a dove si trovava la sede del MSI, c’era la sede di Politica, la rivista di Nicola Pistelli. Un luogo di incontro e di formazione da cui passavano tutti i maggiori protagonisti fiorentini e nazionali del mondo cattolico. Erano stanze di vita e di discussione in cui si formava la classe dirigente di un partito popolare come la Dc, maggioranza o minoranza che fosse nelle diverse situazioni. La frequentazione di giovani come Giovanni era pressoché quotidiana e il suo tragitto partiva dall’Oltrarno, dalla Chiesa di San Felice in Piazza, un luogo fondamentale di formazione per la presenza di Monsignor Panerai, un grande religioso, ma anche protagonista della vita civile e dell’opposizione al fascismo. Bastava una deviazione in Santo Spirito per trovarsi di fronte alla Chiesa degli agostiniani, con Gino Ciolini che riusciva a parlare con tutta la città e con l’Italia.

Ancora altri erano i luoghi della formazione cattolica e dell’effetto urbano che questi avevano per il centro storico, da San Michelino di Don Bensi, a Cultura in via Pier Capponi, alla Lef, la libreria in via Ricasoli, alla rivista Il Governo in via dei Benci. Tanti luoghi che in modi diversi e talora opposti facevano l’identità di Firenze, senza dimenticare le sedi dei partiti e dei sindacati che erano spazi essenziali di culture diverse e in competizione. In tempi in cui tutto sembra ridotto alle pratiche della quotidianità, il mio viaggio attraverso una Firenze che non c’è è andato a cercare solo qualcosa che ne definiva un’identità in cui si trovava eleganza e non volgarità. Con Giovanni ce ne rendiamo fisicamente conto proprio quando stiamo per arrivare alla Stazione.

Mi racconta che uno dei riferimenti più importanti nella sua giovinezza era stato Reginaldo Santilli, il teologo domenicano da cui De Gasperi inviava Giulio Andreotti, durante la guerra, per avere il suo parere su quello che succedeva in Italia. Santilli riuniva gruppi di giovani e con essi discuteva, la sera, in una stanza da cui si entrava dal retro di Santa Maria Novella. Capisco che per un politico cattolico sia un ricordo assai importante: immagino che una targa ricorderà quell’ingresso dedicandolo a una personalità come fu Santilli, anche per un miscredente come il sottoscritto. Mi porta a vedere la porta da cui entravano, ma non c’è niente da vedere: una sfilata di enormi banchi copre il retro della Chiesa e della porta che cerchiamo non importa niente a nessuno.

Il Corriere Fiorentino