Le drammatiche vicende che dal febbraio 2022 ( ma potremmo dire anche dalla pandemia del 2020) connotano la vita pubblica europea testimoniano un’ impotenza culturale ed un disorientamento morale che si fa fatica persino ad ammettere. Sarebbe come riconoscere che stiamo brancolando nel buio alla ricerca di una luce che non si intravede neppure da lontano. Siamo di fronte a una ennesima eclissi dell’ Europa come quella tragica che ha segnato la prima parte del XX secolo? Dobbiamo allora rassegnarci ed accettare come inevitabile la logica apocalittica dello “scontro di civiltà” preconizzato da Samuel Huntington e prepararci a difendere, anche con le armi, la parte che è nel “giusto”? Non ci sono davvero più altre strade?
È forse, più semplicemente, l’ora di ammettere che, entro un’ oscena separazione tra politica e cultura, abbiamo smarrito, insieme alla cultura del tempo, della pausa e della riflessione, anche l’ arte del “pensare europeo”, certo, non quella di “pensare (in astratto) l’ Europa” come una unione di Stati e magari anche di popoli. Da quando il passato non proietta più le sue luci sul futuro, la mente dell’uomo è costretta a vagare nelle tenebre, come osservava Tocqueville.
Se questo è il problema, bisogna allora tornare indietro, alle radici, ai padri veri del “pensare europeo”, a quelli che hanno reso possibile ai promotori della Comunità Europea, a Monnet, a Spinelli, ad Adenauer, a De Gasperi ed agli altri di mettere mano alla costruzione europea dopo le tragedie della prima metà del XX secolo. E se davvero cerchiamo di andare alle remote origini, io credo che non ci si possa fermare al XX o al XIX secolo. Credo che bisogni invece riandare alla lentissima formazione medioevale dell’ Europa e credo anche che le prime tracce compiute di un “pensiero comune europeo” si possano trovare in Dante Alighieri che è riduttivo considerare solo il padre della lingua italiana. Del resto “Dante scopre l’ Europa- La geografia europea nella Divina Commedia” è il titolo di un lavoro presentato di recente, il 25 febbraio 2023, nella Sala della Regina a Montecitorio e non per caso quel volume si apriva con una presentazione di Davide Sassoli, figura di collegamento anche personale tra Europa, Italia e Toscana. E l’attenzione ad un “Dante europeo” pare essere in sviluppo negli ultimi anni.
Dante certo è una figura imbarazzante, per il peso eccezionale ed extra ordinem della sua opera. Si è parlato di un Dante come “padre della Destra”, ma al di là della discussione da talk show di tarda serata su questa affermazione, con qualche buon argomento si è sostenuta invece l’idea di un Dante “politico medioevale e reazionario”, incapace di comprendere ed accettare il progresso storico. Si è infatti affermato che Dante nel celebre canto di Cacciaguida sarebbe passato da una posizione popolare alla idealizzazione del codice dei valori dell’aristocrazia feudale, divenendo persino una sorta di “propagandista imperiale”.
Il pregiudizio di un Dante reazionario e dogmatico che si oppone alle vive forze della storia è però classificabile come una opinione “prigioniera dei pregiudizi del nostro tempo che ha sviluppato unilateralmente le idee di evoluzione e di immanenza, e che si sforza di escludere totalmente dal pensiero politico e storico gli elementi statici e trascendenti. ..( Per Dante) “storia” e “sviluppo” non sarebbero valori di per sé validi, egli cercava il segno che presiedeva e dava un senso all’accadere del momento, trovava solo caos,aspirazioni illegittime dei singoli, e di conseguenza confusioni e sciagure”( Erich Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 2005 , ediz.orig. Berlin Leipzig 1929, p. 60).
Del resto in quel contesto specifico “ più che a una classe specifica, Cacciaguida si oppone a un fenomeno politico legale , l’assimilazione cioè della cittadinanza a un contratto, un titolo che può essere acquistato e venduto….I problemi erano insorti quando le logiche di mercato avevano distorto il processo di acquisizione della cittadinanza, portando a reati di peculato e corruzione negli uffici comunali” ( Justin Steinberg, Dante e i confini del diritto, Roma, Viella, 2016, p.146).
Ma Dante ha davvero ”pensato l’ Europa” ed ha inaugurato il “pensare europeo” ? Personalmente credo di sì e che sia oggi di grande attualità ribadirne le ragioni e i fondamenti.
Va certo premesso che, benché Dante non abbia impiegato in senso politico il termine Europa, ma si riferisse al contesto della respublica christiana , in lui troviamo un primo progetto di una costruzione politica europea, il De Monarchia. A partire dal XIII secolo, con l’ ascesa degli Stati europei e l’indebolimento dei poteri centrali ( Impero e Papato), si delineava il bisogno di un nuovo potere funzionale, in linea di principio, a garantire la pace. L’ esigenza di un governo comune che assicurasse una pacifica convivenza è testimoniata da un’opera contemporanea a quella di Dante, un’opera scritta da un monaco benedettino della Stiria. Nel 1310 questo monaco, dal nome di Enghelberto di Admont ( 1297-1327) elabora un testo intitolato De ortu et fine Romani Imperii, per sostenere la necessità di un solo governo politico del continente nel momento in cui il Sacro Romano Impero entra in una fase di aperta decomposizione. Il progetto politico dantesco è dunque in sintonia con esigenze non italiane ed è il primo ( o uno tra ii primi) di una lunghissima serie di progetti mai realizzati, ma che sono stati lanciati nel corso del tempo.
Ma non è questo il punto centrale per caratterizzare la dimensione europea profonda di Dante. La vera novità “europea” è nella costruzione intellettuale e morale che Dante realizza con il complesso della sua attività in prosa e soprattutto con la sua principale opera poetica, la Commedia . Dante, nella Commedia, è certo un poeta, ma non nel senso comune della parola, ma piuttosto nel senso di costruttore di un mondo, di creatore di un mondo. “ L’opera di Dante, come le cattedrali del Medioevo e le somme dei filosofi scolastici, si prefigge il gigantesco compito di costruire quel mondo strutturato in cui la ricchezza dell’esistenza perviene all’unità. Essa vuole trovare un ordine in cui ogni codsa abbia il proprio posto , vuole fondare un dominio santo in cui ogni essere riposi sul significato, ogni forza sul diritto e ogni obbedienza conduca alla libertà.” (Romano Guardini, Studi su Dante, Morcelliana, Brescia, 1979, p. 116, ediz.orig. Munchen,1951).
La costruzione di una cultura della persona.
La novità straordinaria introdotta da Dante è stata ben qualificata da Erich Auerbach con la definizione di Dante come “ poeta del mondo terreno”. La poesia dell’antichità classica non aveva mai preso a suo oggetto la realtà fenomenica, gli avvenimenti storici reali ( e “terreni”), ma rappresentazioni mentali e idee aprioristiche che poi davano vita a figure che nulla avevano a che fare con la concreta esperienza dell’autore e con la vita reale. Il poeta classico intendeva rappresentare l’ universale , non ciò che era singolare o personale, che in quanto tale era in sé irrilevante e impoetico. Quindi i suoi contenuti erano ovviamente i miti o le vicende mitizzate degli eroi, col loro valore simbolico ed astrattamente razionale, oppure i sentimenti straordinari che l’uomo sperimenta in via eccezionale. Perché era così? Perché mancava all’antichità classica il concetto di persona prodotto dal pensiero ebraico e cristiano ed elaborato poi dalla teologia cristiana dei primi secoli, anche attraverso la ridefinizione del concetto di divinità.
La persona, nel pensiero cristiano, è un unico irripetibile, creato ad immagine di Dio, dotata di coscienza e di libertà morale, che vive in comunione con gli altri. E’ l’opposto dell’ individuo, dell’ “atomos” greco, concepito come entità tanto autosufficiente quanto indivisibile, essendo invece dotata di una duplice apertura verso il “Totalmente Altro” e verso il prossimo. Questa apertura è generatrice di dinamismo, originalità e complessità e quindi anche di dramma. Agostino nelle sue “Confessioni” ci fa vedere come gli eventi personali, persino quelli a prima vista più irrilevanti, come un furto giovanile di pere, siano in realtà espressione di una complessità psicologica degna di un vero dramma, parte di una “magna quaestio”, di una impegnativa ricerca che merita sempre fare.
La vita reale dei singoli diviene lentamente, a partire dalla rivoluzione del cristianesimo, espressione di un dramma dotato di senso in cui carattere e destino non sono più elementi distinti e in conflitto tra di loro. L’attenzione alla realtà terrena, la dignità riconosciuta a tutta la realtà terrena è la conseguenza della scoperta della civiltà della persona umana. La vita di ogni uomo anche del più semplice è un dramma , la storia umana è, perciò anche essa, una vicenda drammatica, tesa fra un inizio spesso promettente ed un compimento che può fallire e può fallire per sempre. Il dramma umano dello sconosciuto Romeo di Villanova nel Canto VI del Paradiso è esattamente un dramma persino più affascinante di quello del grande Giustiniano che dedica la sua opera a perfezionare la legge, togliendo il “troppo e il vano”.
Il “cammin di nostra vita” – dove il “nostra” indica il riferimento alla comune esperienza di ogni persona- è per tutti un percorso drammatico, conflittuale, in misura maggiore o minore e sempre dotato di senso . “ Non sta compiendo l’uomo un duro servizio sulla terra? E i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario?” ( Giobbe, 7, 1) Per questo Dante fa agire nella sua Commedia personaggi reali, colti e rappresentati in frasi e azioni che ne rivelano l’essenza profonda, il senso vero messo in luce, una volta per tutte, ed in via definitiva, della loro esistenza. E per questo quei personaggi imbevuti del più profondo dei realismi ci affascinano ancora e ci sembrano tanto attuali. Per nessuno di loro la vita è una storia assurda o priva di senso, una favola piena di rumore e clamore che non significa niente.
E’ questa l’ idea della persona, entità irripetibile ed unica, e dotata perciò di un valore infinito, che plasma il “pensiero europeo”, allontanandolo anni luce dal pensiero dell’antichità, che dà vita alle letterature europee, all’arte, alla riflessione culturale e politica europea. La nozione di persona e di uomo in quanto tale non era mai stata iscritta nel diritto classico che trattava di cittadini, di guerrieri e di schiavi, ossia di esseri umani dotati di diritto e di altri sprovvisti di diritti. Prendeva lentamente forma un mutamento epocale iniziato da più di un millennio per cui stava entrando nelle coscienze dei popoli europei una nuova rappresentazione dell’accadere, quella portata dal cristianesimo.
E come scrive Auerbach, “la storia di Cristo è più che la parusia ( la presenza realizzata) del Logos , più che l’apparizione del’ Idea. Essa è anche la sottomissione dell’ Idea alla problematicità e disperata ingiustizia della vita terrena. Considerata a sé, e dunque senza il trionfo postumo e mai completamente attuato nel mondo, semplicemente come storia di Cristo sulla terra, essa è così disperatamente terribile che la certezza di una sua riparazione effettiva e concreta nell’ aldilà, rimane l’unica via d’uscita… ” ( E. Auerbach, Studi su Dante, pp. 14 e 15).
Ed anche la complessiva vicenda europea si può leggere come un grande dramma collettivo. una grande e mai conclusa conflittualità tra esigenze del potere ed esigenze della giustizia, proprio come la vicenda della singola persona che è certo chiamata alla libertà ( morale), ma si deve muovere sotto la tentazione costante di lacerare quell’ordine morale entro cui può realizzarsi il suo destino.
Ogni astrazione da questa concretezza della persona, dalla sua natura relazionale e delle sue finalità umane, è stata sempre una radicale negazione del pensiero europeo. Come è avvenuto coi totalitarismi del XX secolo, o ancor prima con l’utilizzazione della religione come instrumentum regni al tempo delle guerre di religione. Oggi certo non trova più spazio, o ne trova sempre meno, l’astrazione razzista o classista, quella per cui la persona vale in relazione al sangue, alla cultura, alla classe di appartenenza. Ma vi sono altre astrazioni ben più insidiose, diffuse dalla (pseudo) cultura politica, come le astrazioni di mercato per cui la persona si identifica col consumatore, se non con la pura forza-lavoro, o con il puro “occupabile” ( modalità orwelliana per non dire disoccupato), o anche l’astrazione antropologica, a suo modo “progressista”, che mette al centro l’individuo competitivo, l’ homo oeconomicus l’imprenditore di se stesso, o addirittura la nuova entità post-umana, o trans-umana che piace al pensiero cd. “radicale” che si fonda su un inedito potenziamento tecnologico, intelligenze artificiali e via dicendo. Potrà ancora sopravvivere il contenuto effettivo del concetto di persona a queste innovazioni ? O si userà invece il concetto di persona attribuendole però significati diversi? E’ questo il pericolo di un radicale rovesciamento del pensare europeo.
Una persona non è un atomo, né un elettrone libero che basta a se stesso, è piuttosto un essere legato al vivere in comunità, che non può neppure vivere separato da essa. Solo questa persona concreta, la persona, dotata di coscienza e libertà, capace di comunione e di relazione , inserita nella comunità, “signora” della propria mente, è la pietra viva su cui può essere costruita l’ Europa. Il passato ce lo dimostra. Solo questa persona poteva realizzare quell’arte del “vivere insieme” tra persone diverse che è stata la cifra della grande fioritura medioevale: le “città europee” da cui è nata davvero l’ Europa coi suoi slanci creativi migliori. L’astrazione antropologica potrà invece produrre anche qualcosa di omogeneo e funzionante, magari sul modello del neo-confucianesimo cinese contemporaneo. Ma non certo qualcosa di europeo.
Dal concetto di persona e dalla scoperta dell’ “arte del vivere insieme” è nato poi forse l’acquisizione più alta del progresso europeo, vale a dire la teoria dei diritti umani, la cui scoperta noi datiamo al XX secolo e le cui fondamenta, semplicisticamente, facciamo risalire all’ Illuminismo. In realtà la filosofia dei diritti umani – diritto all’eguaglianza, alla sicurezza, alla libertà di coscienza, alla libertà di proprietà ecc.- trae origine dal riconoscimento del valore infinito della persona umana e della eguale dignità delle persone create “a immagine” di Dio, vale a dire dotate di un potere che, come ogni potere delegato, richiede sempre responsabilità, un “potere” che per esser tale, paradossalmente, non può mai essere “dominio” arbitrario, ma deve esser sempre “servizio” e “obbedienza” a una norma. Sono stati, nei secoli successivi al secolo dantesco , in particolare nel XV, XVI e XVII secolo i teologi, i giuristi e i filosofi cristiani a trasporre le prescrizioni etico-religiose entro il diritto aprendo la strada agli sviluppi dell’ Illuminismo. Potremmo dire che i diritti umani sono il fondamento, finalmente aperto e dichiarato, di quel “vivere insieme” in modo umano che la fioritura medioevale aveva prodotto. Oggi abbiamo, in teoria almeno, universalizzato il diritto alla dignità personale- passo forse inevitabile dopo la Shoah- un diritto che è entrato nel senso comune. Ma c’è qualcosa che non va. Nonostante questo non c’è l’ indignazione che ci vorrebbe contro chi in Europa innalza nuove frontiere interne e respinge i disperati del mare e che, quasi in oscena coerenza con questo degrado, sembra di nuovo considerare la guerra un mezzo come altri per risolvere le controversie internazionali.
Una unità che genera diversità
E’ alla cultura della persona che si ricollega anche il motto europeo ben diverso da quello americano che è E PLURIBUS UNUM ( Dalla molteplicità l’unità). Notoriamente l’ UE ha invece come motto UNITA’ NELLA DIVERSITA’.
In realtà il motto europeo indica una realtà molto diversa, per certi aspetti opposta. L’ unità non si situa alla fine di uno sviluppo, bensì all’inizio di un percorso ed al percorso dà un senso indirizzandolo verso un compimento. In Europa non ci sono Stati che, ad un certo punto, scoprono la necessità di unirsi anche se non c’è più un nemico comune, come è avvenuto in America. In Europa c’è una sorta di sostrato costitutivo della realtà comune che genera la differenza e la molteplicità, che, in mancanza di una guida o di una governance adeguata, possono produrre conflitti, competitività e guerre. Ma possono farli in quanto è la rottura di quell’ordine a creare disordine, caos, sofferenza, ingiustizia, involuzioni. E il recupero faticoso di quell’ordine, la rinascita di quell’ordine pur difficile e faticoso è sempre possibile.
Non a caso è nel De Monarchia che Dante formula una definizione dell’elemento “ dirompente”, che opera tanto nelle vicende personali, quanto in quelle collettive. Quell’elemento è il “peccato” così come emerge dall’elaborazione dantesca fondata sul pensiero aristotelico e dalle premesse del pensiero ebraico e cristiano che quel concetto avevano formulato.
“Peccare non è altro che disprezzare l’uno per tendere al molteplice, come ben intendeva il salmista dicendo: Si sono moltiplicati dal frutto del frumento, del vino e dell’olio. E’ chiaro pertanto che tutto ciò che è bene, è bene in quanto uno.” ( De Monarchia, I, XV).
Il peccato è cioè non l’offesa all’altro, ma il fallimento interiore che deriva dalla lacerazione di un ordine, da una auto-negazione, da un auto-contraddirsi che riguarda l’ intimo della persona, un modo di rendere la persona “ingiusta” contro se stessa ( potremmo dire una sorta di “suicidio ontologico”). Non è semplicemente un’ offesa che danneggia altri o noi stessi, come il reato.
Questo ordine preliminare è necessario tanto alla vita del singolo, come alla vita sociale. Senza una norma morale ( che rende possibile il concetto di peccato) la norma positiva non regge. Essa avrebbe sempre bisogno di imporsi con la forza e con la violenza. La norma positiva ha invece bisogno di una sotto- struttura morale necessaria a farla funzionare. “Le leggi son ma chi pon mano ad esse?”( Purgatorio, Canto XVI)
Oggi nella coscienza collettiva della modernità è invece svanita la differenza tra le due norme, tra peccato e reato – essendo il primo considerato un concetto obsoleto e poco “laico”, non come il concetto che attesta l’esistenza di una dimensione morale autonoma da ogni potere umano – con la conseguenza che, avendo vigore una norma ad una sola dimensione, si pretende un diritto che arrivi a normare tutto, dal gioco ai grandi temi della morte e della vita, togliendo respiro e vitalità al corpo sociale che dovrebbe vivere e non solo funzionare ( Paolo Prodi Homo Europaeus, Bologna, Il Mulino, 2015, p-. 106) e negando nei fatti ogni funzione ordinatrice e attiva alla coscienza, quasi esiliandola dalla realtà, come “congegno antiquato” ( vogliamo mettere la comodità delle direttive della tecno-scienza?).
In Dante invece è chiarissima la connessione tra ordine ( personale e collettivo), gerarchia dei valori, pace universale e possibilità di realizzare nella libertà le finalità dell’essere umano, evitando il male dato sempre dalla dispersione e dal caos.
Ecco il senso che ha il contesto comune il background culturale collettivo che si chiama Europa e storicamente nasce, in mezzo a drammi e guerre, per dare vita, per incarnare quest’ordine ideale. Qualcosa di culturale e di resistibile, certo, non una forza capace di autoimporsi comunque, e dunque purtroppo qualcosa di destinato a cedere, se non è sostenuto dalla mente e dal cuore delle persone. Qualcosa mai acquisito una volta per tutte.
Potremmo definire questa unità originaria centrata sul valore della persona una sorta di “vincolo interno” ai comportamenti politici, anche a quello dei singoli Stati, l’opposto dei “vincoli esterni” ideati dalla cultura illuminista che affidava l’ordine e la pace al gioco meccanico degli equilibri di forze, e, prima di tutto, al commercio e alla moneta ( al cambio valutario), funzionali a piegare le volontà dei sovrani, secondo Montesquieu.
Una unità fondata sulla cultura della persona non può che produrre diversità, e deve imporre limiti e regole agli obiettivi che il potere assume su di sé. Tutto ciò che ha un fondamento funzionale e tecnologico non può essere accolto in quanto tale da chi “pensa europeo”, ma deve sempre esser disciplinato e piegato all’esigenza di ordine funzionale alla persona umana di cui si è detto. Ad esempio il cosiddetto principio di concorrenza non può essere fatto valere come un principio assoluto, sottratto a ogni bilanciamento, omologante o anche solo unificante, non può essere un principio – e tale non è neppure nei Trattati europei- ma solo un valore o un obiettivo ben delimitato ( ad esempio la concorrenza nell’approvvigionamento di fonti energetiche) da far valere. I
Affermare la concorrenza come principio assolutamente dominante significherebbe considerare la persona unicamente come consumatore, utente, forza lavoro, individuo autosufficiente e competitivo, o semplice numero, come avverrebbe se il progresso potesse coincidere con la proporzione qualità-prezzo e con una realizzazione della efficienza e della economicità. Sarebbe una cancellazione dei connotati essenziali europei,una distruzione programmata della molteplicità. Eppure a questo ci avviciniamo come dimostra la significativa sostituzione del concetto giuridico di “territorio” con quello di una entità volatile e liquida, come lo “spazio” nella giurisdizione europea.
Ancora una volta emerge così la specificità della unità fondata sulla persona e dunque sulla proporzione e l’equilibrio tra le persone. “ Non basta né un’origine, né un passato europeo per riconoscere uno spirito europeo. Gli Stati Uniti e la Russia hanno tratto le loro premesse dall’ Europa , ma poi sono andati avanti in un’unica direzione, non hanno sviluppato che il ruolo delle masse e quello delle macchine , mentre il vessillo della civiltà europea era l’ideale supremo dell’equilibrio, della proporzione e della sintesi. […] Per Denis de Rougemont è l’equilibrio europeo tra tradizione e innovazione ciò che ha permesso di disciplinare la società tecnologica. L’ Europa aveva i mezzi per creare delle salvaguardie contro l’onnipotenza della civiltà tecnologica” ( V. Obaton, La promotion de l’identité culturelle européenne depuis 1946, Euryopa, Genève, 1997, p. 52)
E’ l’equilibrio in questione e ciò che è più necessario anche oggi per ricostruire le basi della convivenza europea e per disciplinare la società tecnologica. Al posto di una uniformità livellatrice ( e conflittuale)la differenza e la molteplicità.
Come ancora nota Auerbach, “( Per la dottrina tomistico aristotelica) la molteplicità non è posta in contrasto con la perfezione , ma è sua espressione , e inoltre l’universo è inteso non immobile ma in movimento nel senso della autorealizzazione delle forme , così che nel continuo impulso dalla potenza all’atto la molteplicità viene anche elevata a necessaria via della perfezione: e allora nella particolare applicazione all’uomo che essa trova nella psicologia tomistica , essa diviene il fondamento della tensione drammatico-realistica delle vicende storiche” ( Erich Auerbach, Studi su Dante, cit. p. 77).
È questo il senso profondo della realtà umana che a Dante si rivela nella visione da lui identificata nella prospettiva del Paradiso, inteso come “città” del compimento del destino umano letto attraverso la profondità dell’essenza divina:
“nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si squaderna” ( Paradiso XXXIII)
Senza molteplicità e differenziazione non vi è “progresso” nel senso profondamente umano di perfezionamento. Vi può essere invece “progresso” nel senso di un potenziamento indefinito dell’essere umano, ma entro la prospettiva disumana dello sviluppo senza finalità.
Se ben consideriamo, anche la nascita delle lingue e letterature nazionali in Europa al tempo di Dante è un esempio di diversità o diversificazione promossa da questo contesto unitario. L’opera italiana di Dante è perciò da celebrare anche come voce europea ( E. Auerbach, Studi su Dante, p. 69) perché Dante, creando il volgare illustre italiano promuove questa feconda diversità, che ci accomuna agli altri popoli europei, che contemporaneamente danno vita alle letterature francese, tedesca, spagnola ecc.., creando un plurilinguismo europeo che è, ancora oggi, essenziale come antidoto al falso spirito di unificazione e comunione.
L’idea dantesca di una lingua letteraria e nobile che resta sempre in mutuo rapporto con la lingua quotidiana ( il volgare illustre) in grado di accogliere e di dare ciò che è vivo elemento di tradizione popolare, realizza dunque in forme peculiari la de-massificazione del linguaggio, creando una “comunanza nel molteplice, una vera e propria moderna koinè europea” ( Erich Auerbach, Studi su Dante, cit. p.70).
La pace come finalità suprema della politica ( e della vita umana)
In Dante non esiste ovviamente pacifismo, banale dirlo, ma piuttosto una vera e raffinata cultura della pace. Il pacifismo, corrente ideale nata con la modernità nel XVIII secolo, postula semplicemente la rinuncia al ricorso alla guerra da perseguire, se non attraverso l’esempio della testimonianza personale anche eroica, attraverso obiettivi e strumenti di vario tipo ( lotta al militarismo, al capitalismo, per alcuni, incentivazione degli scambi commerciali per altri…), ma esso non configura mai la pace se non come assenza di guerra e non come una struttura culturale politica ed antropologica specifica da mettere in campo.
In Dante la pace, che è per lui anche l’obiettivo di fondo di ogni percorso umano, l’aspirazione di ogni persona che egli incontra nei personaggi dell’ Inferno e del Purgatorio, culmina nella conquista di una “pace” che non è altro che la realizzazione , ovviamente parziale e difettiva nel mondo terreno, di quell’ ordo amoris che è il cardine invisibile dell’universo e il senso complessivo della realtà, l’ “amor che move il sole e l’altre stelle”.
L’accordo delle volontà, il confluire delle volontà entro una volontà comune e superiore è il vertice che può raggiungere la persona e ciò cui intimamente essa aspira.
La persona che agisce nella storia per tradurre in realtà questa unità di fondo non può farlo se le libere volontà degli uomini non si incontrano , o meglio se non sono guidate ad incontrarsi, per dar vita a quella concordia delle volontà umane, che realizzano il supremo bene comune, che è la “pax universalis”, condizione indispensabile e preliminare di ogni pubblica e privata felicità. Proprio perché la pace intesa in questo senso profondo significa sempre trovare una armonia tra diversi, essa diviene il bene supremo e preliminare a tutti gli altri, la finalità guida di ogni politica, come Dante poteva ben sperimentare vivendo in Italia entro una disperante anarchia feudale.
Sulla priorità della pace infatti Dante è chiarissimo:
“ E’ evidente che il genere umano nella quiete o tranquillità della pace si trova liberamente e facilmente nella sua propria attività, che è quasi divina secondo il detto “ lo hai fatto di poco inferiore agli angeli”. Quindi è chiaro che la pace universale è la migliore delle cose che sono ordinate alla nostra beatitudine. Perciò dall’alto è stato detto ai pastori, né ricchezze, né piaceri, né onori, né lunga vita, né salute, né forza, né bellezza, ma pace; disse infatti la celeste milizia: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” ( De Monarchia, I, IV, 1-3)
La pace è la condizione di armonia interna e esterna alla persona diametralmente opposta alla condizione di peccato da cui inizia il percorso del poema: che va infatti dalla “bestia sanza pace” ( Inferno, I) all’ “etterna pace” dell’empireo ( Paradiso XXXIII). Una pace che ha come premessa indispensabile quella di essere “frutto della giustizia” che, a sua volta, è resa più salda “dalla carità” ( De Monarchia, I, XI). La condizione paradisiaca è infatti quella in cui la pace è la condizione finalmente conquistata da persone che hanno realizzato quella perfetta capacità di interagire sentimentalmente e razionalmente, fino al punto di intendersi perfettamente senza parole, e di questo gioiscono e sorridono sempre.
Nella azione politica umana ciò significa lavorare per una cultura politica che lavora per costruire una realtà sociale e culturale armonica che considera la guerra come un fenomeno alieno dalla ragione umana e configura certo non una “rinuncia”, ma un “ripudio” della scelta bellica, come fa la nostra Costituzione. Il che non esclude però eventualmente il ricorso alla guerra difensiva cui lo Stato singolo può esser costretto, ma che, in nessun modo, può operare per configurarla come un mezzo accettabile. La guerra non è in questa cultura un altro modo di fare “politica”, è semplicemente altro da essa, con buona pace di Von Clausewitz. Non si tratta dunque affatto di utopismo, ma di una concreta e possibile prospettiva culturale.
Il diritto come giustizia
Diritto e giustizia, che noi siamo soliti identificare e spesso sovrapporre, sono dimensioni tra loro distinte e rinvianti a tradizioni diverse, quella latina e quella greca ed ebraica. Diritto (lo Jus dei romani) è la modalità per garantire, attraverso la tipizzazione dei comportamenti definiti da una norma, una attività ordinata in quanto conforme a pratiche ritualizzate. E’ una sorta di geometria, ma applicata alla materia sociale. Giustizia è invece conformità della norma ad un ordine naturale costituito a salvaguardia della persona, o ad una legge non scritta perché trascendente le contingenze storiche o perché attribuita alla divinità. Ius e iustitia sono stati poi tra loro collegati nella tarda antichità ma non era così all’inizio.
Oggi sperimentiamo il diritto come pura applicazione tecnica del pensiero ad una data fattispecie, come è naturale in un’epoca in cui il pensiero tecnocratico opera con dati quantitativi ed è incapace di comprendere l vivente e l’umano. Noi oggi abbiamo a che fare, specialmente in tema di direttive e normative europee con un diritto che si espande in ogni settore della vita umana, promosso dalle nuove tecnologie, dalla globalizzazione, dalle emergenze ambientali, un diritto che si occupa di ciò che mangiamo, di come ci riscaldiamo, di come costruiamo le nostre case, di come dobbiamo relazionarci coi colleghi sul posto di lavoro, di come possiamo tutelare la nostra “privacy” dai problemi creati dalla tecnologia, per arrivare infine alle questioni della vita e della morte. In questa dilatazione anomala di campo sta però il problema.
Se il diritto si occupa di produrre norme per tutto, esso finisce per invadere gradualmente, ma inesorabilmente, anche la sfera della coscienza e della libertà di coscienza, che dovrebbero presidiare l’ ambito morale. La norma morale finisce per essere dettata dallo Stato , dai suoi “tecnici” e dai suoi “scienziati”. E se il diritto si configura come una espansione o un prodotto della tecnica o della tecno-scienza, che dettano leggi non contendibili e non discutibili dall’uomo comune, il diritto non può che de-umanizzarsi. Infatti non solo si perde l’idea che l’ordinamento si fonda su una norma che sovrasta tutte le altre e le finalizza ad un bene comune umano, ma si perde e si esaurisce persino lo spazio del costituzionalismo, dei limiti costituzionali al potere. Si cancella infatti la struttura morale ereditata dal liberalismo ma non prodotta da lui su cui esso si fonda, per cui, secondo il paradosso di Bockenforde, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire. E, alla fine del processo, non può che evaporare persino lo spazio della umanizzazione sociale e delle politiche sociali.
In Dante viceversa il diritto non è mai separato da quelle finalità umane che sono contenute nella giustizia e nei principi di giustizia. Non a caso il canto XVIII del Paradiso contiene il passo iniziale del libro della Sapienza: Diligite iustitiam qui iudicatis terram , “amate la giustizia voi che giudicate la eterra”( Paradiso, XVIII, 291-93)
Noi in Italia invece ci siamo abituati cioè all’idea che, in date condizioni, la giustizia, il dare concretamente a ciascuno il suo, non sia effettivamente sempre possibile. Al principio di giustizia si possono fare eccezioni, magari sostenendole con l’ idea pre-cristana della colpa dei padri che i figli debbono oggi scontare, in nome di un futuro sconosciuto. Non è certo un caso che in Italia – lo abbiamo visto benissimo nella pandemia ma vale anche oggi e valeva già prima- la funzione della cura che dovrebbe svolgere il sistema sanitario sia stata completamente surrogata dalla funzione della prestazione, che non si occupa del malato come persona , né mira alla salute intesa come bene collettivo oltre che individuale, e considera il diritto alla salute come un diritto alla fitness privata e non un essenziale bene relazionale. Nella prospettiva dell’individualismo e del singolarismo libertario che non combatte le cause sociali del male e non fa opera di prevenzione. Per cui nessuno forse doveva stupirsi delle frontiere e dei muri ricomparsi nell’est europeo prima che qui ricomparisse il fenomeno bellico nelle sue peggiori forme tradizionali.
Oggi una nuova antropologia produce società escludenti, frammentate e conflittuali, sempre più incapaci di difendere le persone dai nuovi mali globali. E’ una antropologia che esclude in partenza la “fiducia di fondo”, quella che, per Dante, è un “prerequisito essenziale del diritto” ( Justin Steinberg, Dante e i limiti del diritto, cit.p. 147). E lo fa in nome del culto della potenza dell’ego o del suo potenziamento che ha surrogato il faticoso perfezionamento personale graduale e razionale, che è stata la vera cifra del “progresso” europeo.
Il diritto, a partire da quello amministrativo, è oggi sempre più globalizzato ed i suoi meccanismi di formazione hanno ormai trasferito la regolazione dal contesto geo-territoriale specifico ad uno spazio globale. Qui i nuovi decisori del diritto tecnicamente qualificati , anche se non certo accountable verso i destinatari finali delle decisioni, gestiscono la sicurezza mercificando tutto, non solo le persone, rl’acqua, l’aria e la terra e i pubblici servizi ma persino il rischio, oggetto di scommessa legalizzata.
Oggi ci imbattiamo in un diritto senza la giustizia, perché è venuto meno il riferimento ai suoi destinatari concreti, alle persone, ed a delle finalità umane, oltre che ad una premessa trascendente, rinviante o no ad una religione. Noi ci contentiamo delle “regole”. In Dante no, il diritto non è mai soltanto un insieme di regole che prescrivono o vietano azioni. Esso si qualifica come una “ proporzione fra cose e persone che intercorre nei rapporti tra uomo e uomo , la quale, finché resta salda, tien salda la società, quando si corrompe , ne provoca il crollo …. Se il fine d ogni società è il bene comune dei suoi membri è necessario che il bene comune sia il fine di ogni diritto , mentre è impossibile che ci sia un diritto che non abbia per fine il bene comune… ( Le leggi) devono stringere gli uomini gli uni agli altri in vista dell’ utile comune. Perciò dice bene anche Seneca quando nel libro Delle quattro virtù afferma che la legge è il vincolo dell’umana società”( De Monarchia, II, V). E non può poi esserci diritto senza giustizia, né giustizia senza carità. “ Poiché tra gli altri beni dell’uomo, il maggiore è quello di vivere in pace e questo bene è frutto essenzialmente della giustizia, sarà proprio la carità a rendere più salda la giustizia e tanto più quanto essa sarà maggiore”( De Monarchia I, XI).
Benedetto da Norcia, il costruttore dell’ Europa.
Non c’è ovviamente nella Commedia alcun canto dedicato l’ Europa. C’è un canto però in cui si intrecciano stupendamente tutti i punti essenziali di questo “pensare comune europeo” di cui si è sin qui detto. E non poteva essere che il canto XXII del Paradiso, quello in cui compare Benedetto da Norcia, il santo proclamato nel 1964 da Paolo VI il primo tra i protettori dell’ Europa. Benedetto era intervenuto, con la sua azione di fondazione della prima grande rete di monasteri europei, in un contesto disastroso, devastato dal crollo definitivo del sistema di diritto romano e dalla guerra greco-gotica a metà del VI secolo, che aveva comportato, specie in Italia, un pauroso stato di regressione civile, economica e morale difficilmente immaginabile. Dilagava allora una crisi disastrosa della socialità , della cultura, dell’economia e della politica.
Il ruolo storico del concetto di persona umana in questa ricostruzione morale e civile è evidente nelle metafore e nelle immagini presenti nel canto. Il sogno della scala di Giacobbe ed i movimenti alto-basso e viceversa disegnano efficacemente le modalità di azione della persona.
Il sogno di Giacobbe è il trait d’’union del canto. Il sogno può esser letto come una efficace descrizione di una “religione incarnata” come il cristianesimo- riscoperto come tale nel culto mariano nato attorno alle grandi cattedrali europee o nella rievocazione francescana del presepe- . Come è noto Giacobbe ( Genesi 28, 10/22) nel racconto biblico vide in sogno una scala che dalla terra arrivava al cielo e sulla quale salivano e scendevano gli angeli, per cui poi Giacobbe avrebbe esclamato: Veramente c’è il Signore in questo luogo e io non lo sapevo! La scala è espressione di un invito all’apertura della persona, alla dimensione verticale, all’ascesa verso l’alto alla ricerca del divino. ma al tempo stesso è la testimonianza di una vicinanza non immaginata della divinità all’azione dell’uomo.
“ Infin lassù la vide il patriarca
Iacob porgere la superna parte
Quando li apparve d’angeli sì carca.
Ma per salirla, mo, nessun diparte
Da terra i piedi,e la regola mia
Rimasa è per danno delle carte” ( Paradiso XXII, 70-75)
E’ la nuova forma dell’ascetismo che è una elevazione della persona capace di realizzare una virtus moderna, non più pagana, una virtus legata al servizio degli altri ed al bene della comunità, non più al potere ed al dominio sugli altri. Una virtus post-pagana, che è frutto di una “ascesi” originale che non isola dal mondo, ma riconduce verso il mondo, dall’alto verso il basso, anche se è inconcepibile senza la visione dell’ordine trascendente, evidenziato dalla scala senza fine. Il progresso vero non è qui il potenziamento del post-umano, oggi presentato come la cifra dell’ “antropocene”. Esso è invece una ascesa o elevazione della persona, e configura la costruzione di un carattere segnato da energia, determinazione, coraggio e responsabilità, legata stabilmente alla comunità di appartenenza, potremmo quasi dire un modello anche per la società attuale secondo Alistair Mc Ilwain ( After virtue a study in moral theory , Indiana U.P., 1981) dopo i fallimenti di liberalismo e marxismo. Un progresso che realizza una vitalità che ha bisogno di mente e di cuore, cioè di coraggio, di capacità di non turbarsi, di resistere,di sfuggire agli inganni e alle idolatrie di ogni tipo.
“Qui son li frati miei che dentro ai chiostri
Fermar li piedi e tennero il cor saldo” ( Paradiso XXII, 50-51)
L’opera della persona così rinnovata è una sorta di “santificazione” di tutta la realtà, dove anche il lavoro ritrova una sua dignità, sconosciuta al mondo antico. Una dignità che deriva dal non essere pura erogazione di forza o attività funzionale, ma perché, visto come dialogo, come cura del creato e dell’altra persona, iscritto entro una relazione umana che vuol realizzare quell’ ’ ordo amoris che glorificazione di Dio, umanizzazione dell’uomo e custodia della natura.
. Questa potentissima visione unitaria ed unificante, animata dalla caritas, produce la molteplicità positiva “…quel caldo/ che fa nascere i fiori e i frutti santi” ( Paradiso XXII; 47-48), la molteplicità dei sentimenti e delle opere cui è conferito bene e bellezza dall’opera umana. Si umanizza il tempo, che non è il tempo omogeneo o circolare degli antichi, ma il tempo come occasione in cui si ordina l’azione umana, si realizza la cura degli altri, la bonifica del paesaggio, la coltivazione ordinata della terra.
Siamo nell’ambito di quella che oggi chiamiamo “politica della cura” , da tutti oggi citata e da nessuno praticata, la politica che usa come benchmark finale non i parametri astratti e numerici, ma i beni concreti realizzati , in particolare i beni attinenti la la persona ed il territorio. Potremmo forse ricordare che nelle parole di un pontefice del XX secolo tra le forme più alte della caritas si annoverava la politica, evidentemente “questa” politica.
Nel canto, come in ogni canto del Paradiso, vi è ovviamente un continuo implicito riferimento alla pace, che è la cifra dei comportamenti delle anime, tutte mosse dalla carità che genera la concordia delle menti e dei cuori che, in una trasparenza assoluta, vedono e condividono i pensieri degli altri. “….se tu vedessi/ com’io la carità che tra noi arde/li tuoi concetti sarebbero espressi” ( Paradiso XXII; 31.33).
Non ci sono riferimenti diretti alla pax universalis che dovrebbe regnare nella politica. Tuttavia c’è una serie di indizi che ci fanno capire perfettamente la riflessione dantesca.
La cultura della pace come la cultura del cristianesimo è una cultura che prevede un duplice movimento, di discesa ed elevazione, di rivelazione/illuminazione e di sforzo personale di miglioramento in direzione di ciò che è “sublime”, prevede il “trasumanar” del Paradiso dantesco, che è cosa molto diversa dal post-umano e dal super-umano moderni.
E quel son io che su vi portai prima
Lo nome di colui che in terra addusse
La verità che tanto ci sublima ( ParadisoXXII, 40-42)
La verità evangelica viene portata in basso , sulla terra, per portare in alto le persone. E la pace in senso politico, ovvero la cultura della pace dantesca, non è una ideologia, una strategia politica, una scelta di testimonianza, un tentativo disperato degli uomini immersi nel caos. E’ invece una possibilità concreta, che difficilmente può essere costruita, ma può esserlo. Tutto dipende dalla capacità della cultura di spingersi in alto e di riuscire a osservare da una prospettiva straniante e straniata ( quella dell’eternità dantesca ) i piccoli fatti e le piccole storie degli uomini fatte di rumore e clamore, ma in se stesse piccole e irrilevanti, e significanti solo in riferimento ad altro.
La cultura della pace significa oggi saper riconoscere perché l’ Europa di oggi, più o meno come l’ Europa che Dante vede dall’alto, si presenta nel canto citato come “l’aiuola che ci fa tanto feroci” ( Paradiso XXII; v, 151). Ma solo se partiamo da questa cultura più elevata, quella della persona umana, e abbiamo la forza di sorridere “del vil sembiante” (Paradiso XXII 135) che ha assunto il nostro mondo, possiamo discernere i problemi epocali che dovremmo affrontare per costruire le basi di una nuova cultura della pace e della politica. Per far uscire l’ Europa dall’eclissi in cui di nuovo si trova. Abbiamo però bisogno di una cultura che ci porti verso l’alto, verso il sublime.
Pubblicato originariamente su politicainsieme.com.