Con il definitivo prevalere della componente jihadista dentro Hamas, non è più una questione nazionale, di irredentismo nazionalista, ma è una questione strettamente o eminentemente religiosa. La rivendicazione della liberazione e indipendenza del popolo palestinese è divenuta meramente strumentale, ormai. La questione israelo-palestinese si è dunque trasformata in un problema politico pensabile non in termini strettamente occidentali, ma islamici. Anche, se non prevalentemente, islamici. Anzi, di islamismo politico. Affinché si trovi una soluzione di pace occorre comprendere come ragiona il nemico. Occorre concentrarsi sulla distinzione tra dār al-Islām e dār al-ḥarb. Così ragiona l’integralismo islamico, secondo cui l’organizzazione della società dovrebbe essere interamente sottomessa alla precettistica religiosa, peraltro letta ed interpretata nella sua versione più rigida e intransigente. La teocrazia vigente in Iran costituisce pertanto un modello da seguire, almeno per l’Islam sciita.
Recita così la Treccani: dār al-ḥarb è «espressione araba divenuta tecnica nel diritto musulmano, la quale significa “sede della guerra” e designa il complesso dei territori soggetti a dominio non islamico e non abitati da musulmani. […] L’infedele del dār al-ḥarb, cioè non suddito dello stato musulmano, si chiama (ḥarbī (vocabolo tradotto con hostis nelle versioni ufficiali francese e italiana del Codice dello statuto personale musulmano egiziano del 1875); i suoi beni e la sua persona sono fuori legge e quindi leciti a qualsiasi musulmano, a meno che egli penetri in territorio musulmano munito di amān (v.) o salvacondotto; in questo caso diventa musta’min “che ha ricevuto sicurtà”, ma se prolunga senza interruzione per oltre un anno la sua dimora in terra islamica si trasforma in dhimmī (v.), ossia infedele suddito dello stato musulmano. Il dovere del capo dello stato islamico, quando abbia la forza necessaria, è di muover guerra ai territorî del dār al–ḥarb e conquistarli, salvo che con essi esista trattato di tregua; la pace perpetua con essi è inammissibile». Su questo non vi sono divergenze particolari tra sunniti e sciiti, specie se guardiamo alle rispettive diramazioni integraliste e radicalizzate.
L’attacco terroristico del 7 ottobre 2023 dimostra come molte tecniche di lotta dei terroristi dell’Isis siano state riprese dai miliziani dell’ala armata di Hamas, le Brigate Ezzedin al-Qassam, divenute un vero e proprio esercito finanziato ed armato dal Qatar. La stessa ferocia e barbarie, alimentate dal fanatismo religioso. Per questo merita ripartire dalla situazione creatasi circa nove anni fa, quando l’Isis sorgeva tra Iraq e Siria, spadroneggiando e destabilizzando il Vicino Oriente. Oggi come allora bisogna che all’uso necessario della forza, ben calibrata nei tempi e nei modi, Israele, Europa e Stati Uniti affianchino un’azione diplomatica accorta ed incisiva, che tenga conto di due criteri-guida: 1) il principio pluralistico, dunque liberale, della possibile e doverosa convivenza tra diversi (per religione, lingua, cultura), da cui consegue il diritto dello Stato di Israele ad esistere e la ferma condanna di chi lo nega e ne sostiene la cancellazione da quelle terre, dal che consegue che pure uno Stato palestinese ha analogo diritto; 2) non pensare l’Islam come un monolite, un unico universo religioso, culturale, politico e sociale, tanto che nemmeno lo jihadismo è (era?) univoco (l’Isis considerava i Fratelli Musulmani come degli apostati, al-Qaeda odiava l’Isis ideologicamente, etc.) e dunque consegue che bisogna impedirne compattamenti in chiave tattica, accentuandone semmai le divisioni, che vanno ben oltre quella tra sunniti e sciiti. Per tutti questi motivi ripropongo un mio articolo del 2015 come punto di ripartenza per affrontare con consapevolezza storico-culturale e lungimiranza politica la gravissima crisi attuale (DB).
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Integralismo islamico, si dice. Teniamo bene a mente l’uso, oramai diffuso su tutti i media e nel linguaggio pubblico, di questo termine. Il fatto che sia un “ismo”, appunto. Cosa ci segnala? Che ciò di cui stiamo parlando non è solo e tanto l’Islam della tradizione, che pur unisce il politico e il religioso. Come ogni “ismo” che si rispetti, con integralismo islamico noi stiamo denotando un’ideologia e un programma per porre un preciso, peculiare ordine alla vita quotidiana e in comune. Stiamo dunque parlando di un’ideologia potente di cui si sono avvalsi fino ad oggi gruppi armati diversi e sparsi in differenti Paesi di una comunità, quella musulmana, composta da oltre un miliardo di persone che abitano dalle Filippine del Sud alla Nigeria. E, da qualche decennio a questa parte, sta popolando sempre più anche il vecchio continente europeo. Ovviamente, l’obiettivo primo ed essenziale è che l’intero dār al-Islām (in arabo: : دار الإسلام , letteralmente “Casa dell’Islam”), ossia i territori che, secondo la tradizione islamica, sono sottoposti all’imperio politico e giuridico dell’Islam, dove i musulmani possono compiere gli obblighi loro richiesti in quanto credenti, in particolare lo svolgimento dei cinque pilastri dell’Islam. Il fatto che la giurisprudenza islamica (non la teologia islamica) suddivida il mondo in dār al-Islām e dār al-ḥarb, e che quest’ultima, ossia il territorio non-islamico, significhi “Dimora della guerra”, è alquanto eloquente. Ma fin qui è tradizione, che può essere interpretata e riattivata in modi e con intensità differenti.
Nella dār al-Islām hanno diritto di vivere e operare solo i musulmani e, con diverse limitazioni (come ad esempio il divieto di proselitismo e di erigere nuove chiese o monasteri) gli appartenenti alle cosiddette religioni “del Libro” (Ahl al-Kitāb), mentre ne sono esclusi i politeisti e gli atei. Ovviamente, da quando il mondo islamico ha assunto un assetto nazionale analogo a quello dell’Occidente cristiano, le cose sono cambiate, ma il neonato Stato islamico (Isis) si sta muovendo proprio con l’intenzione di cancellare la geografia politico-territoriale e i relativi confini statuali segnati dalle potenze europee già all’indomani della prima guerra mondiale. Come ha spiegato bene Bernard Lewis, tra i maggiori storici dell’Islam e del Medio Oriente a livello mondiale, «quando noi occidentali, cresciuti in una tradizione occidentale, adoperiamo i termini ‘Islam’ e ‘islamico’, tendiamo naturalmente a commettere un errore: assumiamo cioè che la religione, per i musulmani, abbia lo stesso significato che ha avuto nel mondo occidentale, anche nel Medioevo; vale a dire che essa segni un settore o uno scomparto di vita riservato a certe faccende, distinto o per lo meno separabile da altri settori designati ad occuparsi di altro». Le distinzioni tra Chiesa e Stato, fra spirituale e temporale, ecclesiastico e laico, religioso e secolare non avevano corso nell’Islam prima della sua occidentalizzazione più o meno forzata seguita alla colonizzazione o al crollo dell’Impero ottomano. Di qui il ruolo “rivoluzionario” che ebbero, per un verso, l’opera di Kemal Atatürk in Turchia e, per un altro verso, opposto e reattivo, l’Ayatollah Khomeini in Iran. La Tunisia è oggi un ulteriore rivoluzione da quando è stata approvata la Costituzione nel gennaio del 2014. L’Islam è religione di Stato ma viene garantita la libertà di coscienza. La convivenza dell’Islam con i principi liberal-democratici viene rimarcata anche nelle prime due disposizioni costituzionali: secondo l’art. 1, infatti, «La Tunisia è uno Stato libero, indipendente e sovrano; la sua religione è l’Islam, la sua lingua l’arabo e il suo regime la Repubblica», mentre l’art. 2 sancisce che «La Tunisia è uno Stato civile basato sulla cittadinanza, la volontà popolare e lo Stato di diritto». L’articolo 20 afferma l’eguaglianza di diritti e doveri dei due sessi, mentre l’articolo 45 impone che il governo non solo protegga i diritti delle donne, ma garantisca le pari opportunità anche all’interno dei consigli elettivi. Nella nuova Costituzione si sancisce poi che l’islam è la religione di Stato ma si esclude la sharia – la legge islamica – come base del diritto del Paese. Ma nell’articolo 6 viene garantita la libertà di fede e di coscienza e viene posto anche il divieto di accusare qualcuno di apostasia.
L’integralismo islamico ha cominciato a diffondersi con efficacia nel mondo arabo-musulmano grazie a tre eventi politici cruciali: la sconfitta dell’Egitto di Nasser, secolarista, da parte di Israele nella guerra dei sei giorni (1967), appunto la rivoluzione khomeinista in Iran (1979) e l’invasione sovietica nell’Afghanistan. La prima guerra del Golfo (1990-91) avrebbe poi rincarato la dose. Ma non possiamo nasconderci che il vaso di Pandora è stato scoperchiato dall’intervento statunitense in Iraq nel 2003, ancor più che da quello dell’anno precedente in Afghanistan. Ed è stato poi definitivamente frantumato dal più recente intervento franco-anglo-italiano (con avallo e supporto made in Usa) nella Libia di Gheddafi, con lo scopo di abbatterne il regime senza averne previamente preparata un’adeguata sostituzione. Si sono aperti varchi che hanno consentito a movimenti come quelli di al Qaeda prima, dell’Isis poi, di espandersi ed affermare la propria egemonia a scapito della mappa geopolitica e dei confini fino ad allora esistenti.
Siccome parliamo di un “ismo”, non possiamo non attingere alla comparazione con l’Europa e la sua storia, fucina di ideologie come nessun’altra parte del mondo. E, soprattutto, incubatrice di ideologie nel Vicino Oriente, per esser quest’area limitrofa nonché colonizzata in vario tempo e in vario modo. L’integralismo islamico come ideologizzazione di una tradizione che si era attenuata con la più o meno avanzata occidentalizzazione e laicizzazione dei regimi politici sorti nel mondo musulmano durante l’ultimo secolo.
Dunque, pur essendo oggetto di abbondante e acuto studio da parte di esperti di giurisprudenza, teologia e storia islamica, sarebbe opportuno intavolare un confronto con quel che è accaduto in passato nel nostro vecchio continente. E sarebbe opportuno da parte dei mezzi di informazione di massa, tanto allarmistici quanto pressapochisti.
L’impressione è che nel Vicino e Medio Oriente sia in corso qualcosa di analogo ad una serie di guerre civili di religione, le stesse per modalità, finalità e conseguenze che divamparono e martoriarono mezza Europa tra la metà del ’500 e la metà del ’600. Guerre di religione e, insieme, guerre politiche. Il calvinismo, come il luteranesimo, gli altri cristianesimi riformati, e il loro acerrimo nemico, il cattolicesimo e la sua istituzionalizzazione nella Chiesa di Roma, erano all’epoca anche ideologie politiche, esplicitamente o meno, dal momento che intendevano uniformare la vita pubblica al credo e ai dogmi. Tanto i cattolici quanto i calvinisti, ad esempio, avevano come obiettivo l’integrale conversione degli altri. Emblematico quanto dichiarava nel 1570 il successore di Calvino alla guida della repubblica teocratica di Ginevra, il teologo francese Théodore de Bèze: “Diremo che si deve permettere la libertà di coscienza? Per nulla al mondo! Si tratta di consentire la libertà di adorare Dio a ciascuno a proprio modo? È un regime diabolico!”. E ancor più eloquente un dialogo intercorso tra Caterina de’ Medici, regina consorte di Francia dal 1547 al 1559 come sposa di Enrico II di Valois, e il visconte di Turenne, ugonotto, ossia calvinista francese: “Il re non vuole che una religione nel suo Stato”, dichiarò la regina; “Noi anche, ma che sia la nostra!”, rispondeva il Turenne. Due integralismi, o intransigenze ed espansionismi teologico-politici, l’un contro l’altro armati, in lotta, con uno più forte in certe regioni e in certi regni, l’altro più forte altrove. Il tutto culminò tra 1618 e 1648 nella cosiddetta “Guerra dei trent’anni” che sterminò almeno un quarto della popolazione della Germania. E non dimentichiamo che, una volta avviatesi a ritmo vieppiù crescente la secolarizzazione e la laicizzazione della vita politica europea, il vecchio continente vide comunque il diciottesimo e diciannovesimo secolo dilaniarsi in tempi differiti per la lotta tra monarchismo e costituzionalismo. Inutile, ma forse no, ricordare come il ventesimo secolo abbia assistito alla guerra tra liberalismo (con alleato comunista dal 1941) e nazismo, nella sua prima metà, e tra liberalismo e comunismo, nella seconda metà. Guerra calda, guerra fredda, ma sempre guerra.
La memoria di quel che l’Europa ha vissuto in questi tre lunghi periodi di scontro ideologico può fornire utili lezioni per leggere quanto sta accadendo nel Medio Oriente. La storia europea ci insegna, ad esempio, quanto l’integralismo islamico jihadista, ora di marca Isis, si nutra del conflitto regionale che ha contribuito a creare con i suoi predecessori, al-Zarqawi in testa, nell’Iraq occupato dalle truppe americane. Ci insegna anche quanto esso metta a nudo la fragilità di confini statuali del tutto arbitrari rispetto alla trasversalità, e trans-territorialità, di alcune etnie, a loro volta suddivise spesso in diverse sette confessionali, quando non anche in tribù o clan più o meno estesi. Tra Siria e Iraq, ma anche in Libia, si stanno muovendo forze militari, ideologicamente mobilitate e mobilitanti, con il dichiarato scopo di ridefinire l’ordine regionale. L’Isis sta cercando di reclutare le formazioni guerrigliere e/o terroristiche locali da tempo operanti in nome dell’islamismo integrale e di inserirle dentro il proprio progetto egemonico e imperialista.
Con la comparazione, o, per meglio dire, con l’analogia storica, non troviamo soluzioni politiche, ma senz’altro togliamo alle guerre dell’Isis l’alone della unicità, della novità assoluta. E si comprende, ed eventualmente combatte, meglio il noto che l’ignoto. La storia non si ripete, ma fa rima. Ciò detto, non si nega la peculiarità del fenomeno Isis, né la sua diversità e relativa novità rispetto ad al Qaeda e al terrorismo islamista fino a ieri conosciuto. Solo negli ultimissimi anni l’integralismo islamico, sorto in Egitto poco meno di un secolo fa, sta ridefinendo il mondo musulmano nei suoi confini politici. Nemmeno la rivoluzione khomeinista era riuscita a tanto. È oggi in atto una guerra civile di religione islamica, intra-musulmana. Non si tratta più solo di una lotta tra islamismo e secolarismo moderno di marca occidentale. Continuando ad essere anche questo, lo scontro con la formazione dello Stato islamico a cavallo fra territori siriani e territori iracheni, si è evoluto in una più complessa, e confusa, guerra che intende, fra l’altro, cancellare governi e Stati consolidatisi da molti decenni, talora da circa un secolo. D’altro canto, anche l’Isis punta sulla forma-Stato, tipicamente europea e moderna, per ristabilire e consolidare la sharia in nome dell’autoproclamatosi Califfo Abu Omar al-Baghdadi, che nell’ottobre del 2006 ha dato vita allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, sigla che raccoglie diverse formazioni.
Tutta questa comparazione, o analogia, a che pro? Forse per ridimensionare il fenomeno? Per ridurre l’allarme? Non necessariamente. Lo spiega bene John M. Owen IV nel suo libro appena uscito per Princeton University Press: Confronting Political Islam: Six Lessons From the West’s Past. Anzitutto, sondaggi recenti, condotti fra 2012 e 2013, rivelano come in molti Stati dell’area, dalla Tunisia allo Yemen, la maggioranza della popolazione sia a favore della sharia quale legge dello Stato. La laicità dello Stato è un concetto tutto nostro, frutto finale di quelle guerre civili di religione che ci hanno dilaniato e stremato per oltre un secolo. Il fatto poi che l’integralismo islamico si presenti come un’ideologia antimoderna e retrograda (ai nostri occhi) non costituisce motivo per credere che sia destinata a soccombere, e soprattutto in tempi brevi. Ad ammaestrarci in tal senso è proprio il nostro passato, remoto e prossimo. Chi avrebbe detto che la Germania sarebbe stata travolta e trascinata con entusiasmo dal nazismo in pieno ventesimo secolo? Così affascinata che gran parte della popolazione se ne fece supporto convinto e ostinato fin quasi alla Berlino in fiamme del maggio 1945? E tornando alle guerre civili di religione, quanto tempo l’Europa occidentale ha dovuto aspettare affinché ci si convincesse che una stabilità politica permanente non aveva bisogno di uniformità religiosa entro i confini nazional-statuali? Non bastò la pace di Augusta (1555), né l’Editto di Nantes (1598). Ci volle la pace di Vestfalia (1648), e non ovunque bastò. La conquista del pluralismo religioso, e non della semplice e pericolante tolleranza, è stata assai lunga e sanguinosa, lastricata di persecuzioni e massacri. Ha richiesto secoli, come la stabilizzazione della mappa geopolitica europea. Per non parlare del pluralismo politico, che tutto l’Est europeo ha cominciato ad assaporare dopo il 1989, non senza esitazioni e nostalgie.
La comparazione col nostro passato aiuta comunque a vedere quanto anarchica e variabile sia la conflittualità interna al Medio Oriente. Nel 2011, durante le cosiddette “Primavere arabe”, l’Arabia Saudita guidata da Sunniti ha inviato truppe in Bahrain per contribuire a fermare una ribellione sciita, al fine di contenere l’espansione indiretta di un Iran a guida sciita. Poco dopo l’Iran è intervenuto in Siria per sostenere il regime di Assad contro i ribelli sunniti, sostenuti dall’Isis, allo scopo di impedire una possibile futura alleanza con l’Arabia Saudita. Di quest’ultima è assai probabile la forte preoccupazione per un’espansione di un fenomeno come l’Isis, destabilizzante l’intera regione. L’acquisizione dell’arma nucleare da parte dell’Iran sarebbe un’ulteriore fattore di destabilizzazione. Anzitutto all’interno dell’area mediorientale, ancor prima che nel più vasto ordine internazionale. Al momento, possiamo solo dire che l’integralismo islamico è tutt’altro che monolitico, e l’Isis sta sconvolgendo assetti ed equilibri in modo da raccogliere sia consensi e adesioni sia dissensi e oppositori tra le società e gli Stati musulmani. Anche sui metodi di lotta non vi è unanimità tra gli stessi gruppi integralisti sparsi nei vari Paesi dal Maghreb al Pakistan.
Quel che il raffronto con la storia europea infine ci insegna è che soltanto combinati con una prolungata crisi di legittimità la povertà e la memoria della dominazione coloniale possono produrre quel caos che oggi devasta il Medio Oriente. John M. Owen IV ribadisce nel suo libro l’impressione che oramai dovrebbe esser chiara a tutti gli osservatori e politici occidentali più attenti: un intervento armato di Stati Uniti o Paesi europei servirebbe a rendere unito ciò che al momento è massimamente diviso e conflittuale al proprio interno, cosicché il primo interesse a fermare l’Isis alberga nei desideri di molti popoli, confessioni e governi dello stesso Islam. Il che non vuol dire che questi siano laici e “moderati” nel senso occidentale. Ma la differenza c’è, evidente. È lì semmai che occorre agire, diplomaticamente, economicamente, socialmente. In Medio Oriente e in parte del Maghreb è in corso qualcosa di non molto dissimile da quanto gli europei sperimentarono tra Cinque e Seicento e dal 1914 al 1945. Due guerre civili-religiose continentali. La seconda ci ha portato sull’orlo del suicidio, senza che nessun Stato europeo-occidentale potesse davvero cantare vittoria nell’estate di settant’anni fa. Il silenzio delle macerie e dei campi di sterminio dominava su tutto e su tutti.
[articolo originariamente pubblicato il 28 aprile 2015 su www.danilobreschi.com]