La strategia Usa nei confronti della Cina ripropone uno schema da guerra fredda inattuale. E ci sono Paesi come la Germania che hanno bisogno di Pechino
Nei circoli oltreoceano, e a Bruxelles, ha destato clamore la notizia che la società cinese Cosco (China Ocean Shipping Company) stia per acquistare quote, il 24,9% senza diritto di veto, di un terminal container del porto di Amburgo.
Fatto che noi italiani dobbiamo seguire con attenzione visto la partecipazione per il 50,01% nella società triestina Piattaforma Logistica Trieste del porto di Amburgo. Da anni, Pechino è il primo cliente straniero del porto anseatico e, nella prima metà del 2022, 1 milione e 300 mila container sono passate per quelle acque.
Secondo i critici, Olaf Scholz, già sindaco di Amburgo, starebbe ripetendo l’errore dei suoi predecessori, passando da una dipendenza energetica dalla Russia a una dipendenza commerciale ed economica con la Cina. A rimarcare l’importanza dei rapporti tra Berlino e l’Impero di Mezzo, la visita ufficiale che il cancelliere tedesco ha fatto a Pechino nei primi di novembre accompagnato da una delegazione di business men di altissimo profilo. Infatti, la Cina è il più importante partner commerciale della Germania: nel 2021 l’interscambio ammontava a 246,1 miliardi di euro.
Gli Stati Uniti hanno rimarcato il loro disappunto proponendo una strategia nei confronti del gigante asiatico completamente diversa, tutta centrata sulla contrapposizione economica coperta da una vernice ideologica. Pechino infatti nei documenti ufficiali – CHIPS and Science Act of 2022 – della Casa Bianca è individuato come il competitore, o avversario, globale in grado di mettere il discussione il primato americano per volontà, capacità e possibilità è la Cina.
Nella recente National Defense Strategy, licenziata il 27 ottobre, il documento programmatico che definisce la politica di difesa statunitense, si legge nelle parole di presentazione del Segretario alla Difesa Austin, “La Repubblica popolare cinese rimane il nostro competitore strategico significativo per i decenni che verranno” perché, come ha detto Biden, “la Cina è l’unico Paese con entrambe le capacità di ridisegnare l’ordine internazionale e con il potere economico, tecnologico, diplomatico e militare di raggiungere questo fine”. Per questi motivi, è necessario raggiungere un obiettivo principale, cioè che l’economia degli Stati Uniti riguardo ai componenti HT fondamentali, a partire dai microchip, dai cicli produttivi, alle linee e catene di approvvigionamento, siano sicure e il Paese, e i suoi alleati, non siano dipendenti e ricattabili da Pechino. Obiettivo su cui si era già mosso il repubblicano e odiatissimo Trump, a dimostrazione della continuità della politica estera americana. I mezzi per raggiungere questi scopi proposti dall’Amministrazione Biden sono essenzialmente due: un maggiore impegno dell’industria nazionale e la necessità di stringere un cordone sanitario intorno alla Cina portando gli alleati a partecipare a una alleanza delle democrazie contro l’autocrate, proposta rilanciata al Summit per le democrazie del 9 dicembre 2021 dal Presidente americano. Ne è un esempio, come ha sottolineato Biden, il rafforzamento della Nato con l’entrata di Finlandia e Svezia, il partenariato Blu Pacific tra Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Stati Uniti, allargamento del recente Aukus, l’Indo Pacifico Quad, la Cornice Economica Indo Pacifico e il Partenariato Americano per la Prosperità Economica.
Molti osservatori si sono domandati se questa strada sia valida, se non pecchi cioè di due difetti, innanzitutto se sia percorribile. Questa strategia infatti cozza contro gli interessi nazionali ed economici di molti Paesi. La Germania, ad esempio, vede le cose in modo completamente diverso. Interrotto il rapporto con la Russia, cessato lo scambio materie prime, in primis fornitura di gas e petrolio, mano d’opera specializzata a basso costo, esportazione di know-how e manufatti ad alta intensità di capitale, Berlino si trova in un vicolo cieco. O smonta completamente il suo modello di politica economica, che comporta il welfare e in generale il patto sociale e politico che dalla fine della Seconda guerra mondiale fonda il Paese, tutto basato sulla manifattura e sulle esportazioni, con il rischio di spalancare le porte sull’incognito e forse su un abisso, o cerca di salvare il salvabile di quel modello. E questo significa due cose solo, accontentare gli Stati Uniti, rafforzando il rapporto con la Nato, e definendosi come la prima retrovia dietro la Polonia e i Paesi Baltici e Scandinavi, ma in cambio mantenere aperto il rapporto con la Cina.
Le industrie chimiche e automobilistiche tedesche infatti non sono dello stesso avviso dell’amico americano. La BMW recentemente ha ampliato per un importo milionario la fabbrica a Shenyang, nel nord est del Paese, Audi sta costruendo una nuova fabbrica a Changchun, nella provincia di Jilin, in collaborazione con la locale FAW joint venture da 3 miliardi di euro, mentre Airbus ha concluso una vendita di 292 aeromobili per 37 miliardi di dollari. Ma non basta, secondo Bloomberg il colosso chimico tedesco BASF ha concluso il più grande singolo investimento, nel sito di Zhanjiang, mai fatto in Cina per un totale di 10 miliardi di euro da qui al 2030.
In secondo luogo, tornando alle critiche mosse alla strategia di Biden, la dicotomia democrazie contro autocrazie è una visione rigida e manichea, che non consente vie di mezzo e comporta uno scontro a tutto tondo sul piano economico, culturale, e militare, antropologico perfino. Ma che non corrisponde alla realtà, perché ripropone uno schema da guerra fredda inattuale, perché la Cina condivide con gli Stati Uniti lo stesso sistema economico, il capitalismo, l’economia di mercato. In secondo luogo, i Paesi democratici intrattengono rapporti economici non certo e non solo con altre democrazie. C’è il rischio in breve che “democratico” sia sinonimo di “occidentale”, di “bianco” se non addirittura di “anglosassone” come ha sottolineato la Malesi a proposito dell’Aukus.
Davanti a questo scenario, di ammonimento sono le parole dello studioso, Kishore Mahbubani, autore di Has China Won? The Chinese Challenge to American Primacy, “L’America oggi rischia di compiere il classico errore di combattere le guerre di domani con la strategia di ieri”. Ma forse siamo davanti a una svolta, nonostante le tensioni scatenate dal viaggio a Taiwan di Nancy Pelosi, Xi alla fine del Congresso che l’ha incoronato ha scritto a Biden per trovare “il modo giusto per andare d’accordo, pronti a riavviare il dialogo militare”.
Pubblicato originariamente su IlSussidiario.net